Le droghe e la città, il primato del corpo

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Ne consegue che in una città tendono a scomparire i luoghi simbolici tradizionali, soffocati dal prevalere dei luoghi dello scambio e delle merci, col risultato di un appiattimento del luogo allo spazio. Il che fa la differenza. Il luogo rimanda ad un universo di immagini socialmente costruite che non si esaurisce nella mera dimensione spaziale. Il luogo, dal punto di vista psicosociale, contribuisce a strutturare forme di identità sociale e permette di identificarsi in un ambiente, di riconoscerlo come proprio e di viverlo come adeguato e aggregante.
Questo processo di semplificazione tuttavia incontra resistenze, poiché è difficile adattarsi a vivere in uno spazio-senza-luogo dal momento che resiste quel luogo assolutamente primo che è il corpo.
Analoga difficoltà si può originare dalla progressiva prevalenza del virtuale sul reale, che sostituisce le communities alle relazioni interpersonali concrete.
Ma è veramente possibile, oltre che sano, vivere senza luoghi reali? E siamo davvero convinti di preferire aggregazioni in-corporee (l’angelopoli, come la chiama Cacciari), assolutamente sradicate, e che queste ci facciano stare bene?
C’è qualcosa di non risolto, evidentemente, in questo processo di marginalizzazione del corpo e della fisicità. Un segnale di quanto tutto ciò possa essere difficilmente eludibile per il genere umano, virtualizzato o meno, è la ricerca di stati di alterazione corporea, quasi un tentativo di riaffermare la dimensione del corpo e di darle un significato.
Alcuni spunti di riflessione: in primis, la perdita di luoghi in cui esistere con percezioni, pensieri, emozioni, capacità di simbolizzare… genera un profondo disagio che va sanato, per sentire di nuovo la corporeità, anche attraverso la sua alterazione. Per esempio con i farmaci, collante per ristabilire ritmi corporei quotidiani perduti; o con le sostanze, per enfatizzare la percezione e l’autopercezione; o infine per i più disagiati (o forse per i più strutturati) con gli interventi psicologici (la psicoterapia come ri-costruzione di uno spazio-tempo).
La seconda riflessione, ugualmente collegata alle sostanze, riguarda il bisogno di ri-creare rituali simbolici per i corpi. Pensiamo alla canapa come esempio di condivisione di un luogo di consumo e di divertimento, o all’alcol, consumo sociale per eccellenza, o all’eroina, con i rituali – tutti corporei – che l’accompagnano. O alla stessa cocaina, funzionale a tenere alta l’attivazione percettiva e l’esserci. Un consumatore, intervistato per una ricerca sui modelli d’uso di cocaina in Toscana, ha espresso bene la motivazione all’uso nel bisogno di avere un potere sul tempo: il tempo corporeo, il tempo del sonno e della veglia, la voglia di esserci adesso e non in un altro momento. Anche i consumatori che cercano di autoregolare i propri consumi parlano di regole legate a luoghi, a rituali, a rapporti reali con persone fisiche. Non a prescrizioni astratte.
In conclusione: non progrediamo nell’elaborazione sulle sostanze se non usciamo da un’ottica solo comportamentale e contenitiva, provando a esplorare il terreno della ritualità, del corpo come mezzo e luogo dell’abitare nel mondo e nelle relazioni.


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