by Sergio Segio | 22 Agosto 2013 7:38
«PROMUOVERE colpi di stato militari è una brutta abitudine. Soprattutto contro governi eletti in modo democratico, solo perché non servono gli interessi dell’Occidente. I putsch non restaurano la democrazia, peggiorano le cose. Èstato così in passato in Turchia. Lo vediamo oggi in Egitto. E l’esempio che mi viene ora in mente è quello di 40 anni fa esatti, il golpe in Cile contro Salvador Allende». Orhan Pamuk non si trincera dietro alla stesura del suo nuovo libro, e non si esime dall’esprimersi liberamente in materia politica. E analizza anzi il golpe egiziano con lucidità spietata. Chiuso nella sua casa estiva di Buyukada, l’isola a poco più di un’ora da Istanbul, il premio Nobel turco sta lavorando duramente («come un asino», dice lui) al prossimo romanzo, che uscirà a inizio 2014. Ma confessa di «vagare fra il tavolo dove scrivo, e il computer o la tv per seguire quello che accade al Cairo». L’Egitto è un Paese che gli è molto caro. I suoi libri laggiù sono apprezzati, spesso è invitato a tenere conferenze e conosce bene scrittori come Neguib Mahfouz e la letteratura egiziana.
Pamuk, ma che cosa dovrebbe fare l’Occidente di fronte alla situazione che si è creata al Cairo?
«Io dico che promuovere colpi di stato contro governi che sono stati eletti in modo democratico, solo perché non servono agli interessi occidentali, è una cattiva abitudine ».
Le viene in mente un esempio?
«Giusto 40 anni fa, nel 1973, gli Stati Uniti promossero un golpe in Cile contro il governo di Allende. Che danneggiò profondamente, per molto tempo, l’immagine della democrazia all’occidentale. Non solo. Finì per stimolare politiche ancora più radicali e fondamentalise contro gli ideali della democrazia e della libertà di espressione».
Torniamo alla domanda iniziale, allora: che cosa dovrebbe fare l’Occidente?
«L’Ue dovrebbe rifiutare in maniera definitiva, e con molta chiarezza, certe politiche se vuole costituire un modello per i Paesi vicini».
Paesi vicini come la Turchia.
Sembra quasi che lei stia richiamando le tematiche del suo romanzo più politico, “Neve”.
«In quel libro, ambientato nella Turchia più lontana, la problematica sollevata era quella dell’etica di tollerare una democrazia dove i vincitori non sono i filo-occidentali, ma piuttosto gli islamici e le classi più povere…».
Abbiamo ancora negli occhi i massacri di giugno a Istanbul, in Piazza Taksim e al Gezi Park. Vede analogie tra la situazione attuale al Cairo e future instabilità in Turchia?
«Fino ancora a pochi anni fa le elite al potere nel mio Paese hanno promosso colpi di stato militari per disfarsi di governi di tipo conservatore eletti democraticamente. Ma questi golpe, invece che “restaurare la democrazia”, portavano le cose ad andare persino peggio e servivano solo a danneggiare l’economia della Turchia e la libertà di espressione».
Seguendo le notizie alla tv che idea si è fatto di quel che accade in Egitto?
«Due giorni prima che l’esercito prendesse il potere, il comandante dell’esercito, al-Sisi, ha fatto una cosa che mi ha subito ricordato il titolo del romanzo di Garcia Marquez, Cronaca di una morte annunciata.
Ha cioè annunciato il suo putsch a tutto il mondo. E tutto il mondo ha voltato la testa dall’altra parte. In particolare l’Occidente. Anche adesso che l’esercito egiziano continua a uccidere, non solo i governi degli Usa e della Ue, ma anche l’opinione pubblica nei Paesi occidentali si comportano come se non avessero alcuna responsabilità».
Che cosa bisognava fare, per lei?
«Dire un “no”, forte e chiaro. Questo è il punto. Perché un golpe non può mai essere il centro di un cambiamento politico».
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