«Siamo pragmatici, la democrazia può attendere»

by Sergio Segio | 21 Agosto 2013 7:28

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«La democrazia può aspettare in Egitto». L’ha scritto, sul New York Times Charles Kupchan, professore di studi internazionali all’Università di Georgetown, autore di «Come trasformare i nemici in amici» (Fazi) e di «No One’s World. The West, the Rising Rest and the Coming Global Turn» (e Gideon Rachman è giunto a simili conclusioni sul Financial Times ). «Non si tratta di un invito all’isolazionismo», spiega Kupchan al Corriere , ma è piuttosto un appello al «pragmatismo nella politica estera americana<. Nel caso egiziano, lo studioso sostiene che «chiedere all’esercito di lasciare il potere e indire le elezioni, come ha fatto Obama, non porterà affatto a essere ascoltati ma solo a una perdita di influenza per gli Stati Uniti. La diplomazia americana otterrebbe invece risultati più efficaci lavorando con il generale Al Sisi e con altri nel governo egiziano per ricostruire l’economia e spingere al rispetto dei diritti umani».
Non è una scusa per non fare nulla mentre l’esercito reprime gli islamici?
«Penso che, al contrario, sia una strategia per evitare di non far nulla. Se guardiamo alla realtà in bianco e nero, o democrazia liberale o niente, finiamo per mollare. Invece questa è una prospettiva che cerca di aiutare le autocrazie a trasformarsi in modo graduale in governi responsabili. In questo modo gli Stati Uniti avranno una maggiore influenza nella regione, oltre che un intervento più efficace».
Lei suggerisce di privilegiare gli interessi americani anziché gli ideali di democrazia?
«Suggerisco il pragmatismo, c’è bisogno di bilanciare il lato morale e idealista dell’equazione con quello realista e basato sugli interessi. Questo è un dilemma che gli Stati Uniti si trovano periodicamente ad affrontare, è la tensione tra idealismo e realismo in politica estera. Accadde in Iran con la rivoluzione del 1979: c’erano coloro che suggerivano di appoggiare lo Scià e di tollerare la repressione per proteggere gli interessi americani, e chi invece sosteneva che bisognava puntare i piedi e aiutare le forze della democrazia. Ebbene la rivoluzione ha portato a un lungo periodo di conseguenze negative per gli interessi americani. Anche adesso Obama si trova di fronte a un dilemma: e la posta in gioco è alta, include il diritto di sorvolo del territorio egiziano e il passaggio navale da Suez, la lotta all’estremismo nel Sinai, il rapporto tra blocco sunnita e sciita, il trattato di pace con Israele. La lista è lunga ed è per questo che Obama sta faticando a trovare il giusto equilibrio di condanna e punizione senza rompere i rapporti. A volte i politici americani tendono ad essere un po’ ingenui sulle difficoltà della transizione verso la democrazia. Gli Stati Uniti hanno già fatto questo errore in passato. Ma la democrazia non può essere imposta, deve essere coltivata dal basso».
Come ci si assicura che la transizione vada nella giusta direzione?
«Non c’è modo per esserne sicuri. L’ultimo decennio e le primavere arabe ci hanno insegnato che la nostra capacità di influenzare il corso degli eventi è in realtà piuttosto limitata, a partire dall’Egitto e dalla Tunisia. E dunque gli Stati Uniti dovrebbero essere attenti a fare il passo più lungo della gamba, come insegnano l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia dove l’intervento ha portato a un lungo e profondo coinvolgimento in situazioni difficili».
Dunque l’intervento in Libia è stato sbagliato? Lo paragona all’Iraq e all’Afghanistan?
«Io ero contrario all’intervento in Libia. Devo dire che la missione della Nato, dal punto di vista militare, ha avuto successo e ha portato alla caduta di Gheddafi. Ma se ci chiediamo “Ne valeva la pena? Quali sono state le conseguenze a lungo termine?” allora diventa discutibile: pensiamo all’ambasciatore americano ucciso a Bengasi, che era stata la roccaforte dei ribelli, alle armi che circolano nel Paese. La Libia oggi non è stabile, è vicina ad essere uno stato fallito ed è un terreno fertile per l’estremismo. Iraq, Afghanistan e Libia sono situazioni diverse ma insegnano la difficoltà della transizione politica in Medio Oriente, anche perché include questioni come le fedeltà tribali e settarie, il ruolo della religione nella politica».
Lei ha sostenuto che l’Islam non è incompatibile con la democrazia. Lo crede ancora?
«Sì è quello che credo. Ma penso pure che la tradizione islamica che non vede distinzione tra moschea e stato, tra sacro e laico è un aspetto che questa regione dovrà affrontare per riuscire a incorporare questi due aspetti. La stessa cosa peraltro accade in Israele, che è una democrazia liberale e laica, ma dove c’è una profonda divisione tra comunità religiose e laiche a proposito del ruolo della religione».
Viviana Mazza

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