Il mio nome è James Leopardi
Sulle pagine culturali della stampa inglese, in queste settimane estive tradizionalmente consacrate a più futili argomenti, il nome di Giacomo Leopardi ricorre con frequenza addirittura impressionante. La lista dei quotidiani prestigiosi, destinata ad allungarsi, per ora comprende il «Guardian», il «Financial Times», il «London Evening Standard», il «Sunday Times». L’occasione è tutt’altro che pretestuosa, una volta tanto, perché si tratta di render conto dell’importante edizione dello Zibaldone curata da Michael Caesar e Franco D’Intino, pubblicata in America e in Inghilterra rispettivamente da Farrar, Straus e Giroux e Penguin Classics.
Di fronte alla traduzione integrale di questo labirintico e polimorfo work in progress, iniziato nel 1817 a Recanati e interrotto nel 1832 a Firenze, viene da chiedersi se non sia proprio la logica, empirica Inghilterra la patria ideale dei futuri lettori di Leopardi. Ma piantare un tale seme in terra straniera non è un lavoro che si possa velocemente improvvisare. Vale proprio la pena di raggiungere per telefono Franco D’Intino, uno dei due curatori, per rivolgergli direttamente qualche domanda sull’impresa, iniziata nel 2007.
D’Intino è d’accordo sul fatto che la cultura britannica è geneticamente predisposta a un confronto serrato e illuminante con la filosofia di Leopardi. «Non bisogna dimenticare che John Locke è uno dei pilastri della formazione filosofica leopardiana. Questo è un fatto assodato, che riguarda le cosiddette “fonti” dello scrittore. Ma ancora più importante è l’apertura sul futuro permessa da una lettura ravvicinata dello Zibaldone, soprattutto considerando le innumerevoli pagine di osservazioni linguistiche. Si arriva, con una certa dose di meraviglia, a constatare evidenti affinità con il pensiero di Ludwig Wittgenstein».
Partiti da premesse culturali così diverse, questi due giganti del pensiero — mi spiega D’Intino — hanno elaborato una meditazione sul linguaggio considerato come un indizio antropologico fondamentale, una traccia capace di rivelare le «forme di vita» che si nascondono dietro le singole parole e i modi di esprimersi.
Quello di Franco D’Intino è un nome ben noto agli studiosi di Leopardi, fin da quando, nel 1995, ha curato una fondamentale edizione degli scritti autobiografici e degli abbozzi di un romanzo che il grande poeta non portò mai a termine. Ha studiato in Olanda, in America e in Inghilterra, e oggi insegna alla Sapienza di Roma.
Nel 1998, approdato all’università di Birmingham, ha fondato assieme a Michael Caesar il «Leopardi Centre» («all’inglese» precisa: «Gli americani scriverebbero “center”»), che nel giro di pochi anni si è guadagnato la credibilità necessaria a ottenere sostegni prestigiosi come quello dell’Arts and Humanities Research Council (più o meno l’equivalente del nostro Consiglio nazionale delle ricerche).
D’Intino non nega affatto di essere il tipico esempio della tanto deprecata «fuga dei cervelli» dall’università italiana. «Ma dal punto di vista dell’esperienza individuale, l’emigrazione mi ha dato più di quello che mi ha tolto. Ho letto libri che non avrei mai letto e un altro influsso decisivo è stato quello sul mio modo di scrivere».
Chiedo allo studioso qualche chiarimento su quest’ultima affermazione, che mi sembra sorprendente. «La forma mentis anglosassone è diversa dalla nostra. Un saggio e anche una tesi di laurea hanno bisogno di soddisfare due requisiti fondamentali: quello di venire rapidamente al punto e quello di esprimere, su un determinato argomento, un’idea nuova, che giustifichi il fatto di occuparsene. È una lezione molto salutare, che ho sperimentato quando mi è capitato di dover tradurre in inglese i miei propri scritti. Noi siamo capaci di livelli eccelsi di raffinatezza, anche nelle tesi di laurea, ma ci capita spesso di perdere il filo, come se ci dimenticassimo delle finalità del ragionamento».
E per questa strada, torniamo sull’accoglienza che una cultura così caratterizzata dalla concretezza come quella anglosassone è in grado di riservare al pensiero di Leopardi. Mi sembra di capire che la grandezza di un classico non è solo una petizione di principio e che bisogna sempre ripensare il modo di interpretarlo, soprattutto quando si punta a un pubblico nuovo.
«Con tutti i loro meriti» precisa D’Intino «le grandi scuole della critica leopardiana sono state dominate da ogni tipo di finalità ideologiche. Questo significa che ognuno ha cercato di tirare Leopardi dalla sua parte, chiudendo tutte le porte della comprensione che non servivano allo scopo. Ma così si finisce necessariamente per impoverire l’opera nella sua complessità e bellezza. Con questo Zibaldone inglese, abbiamo cercato di garantire ai lettori un’esperienza diretta, per quanto possibile, della scrittura e del pensiero di Leopardi».
È stato un lavoro collettivo, scaturito da una lunga esperienza di insegnamento e che ha richiesto, oltre alle fatiche dei due curatori (che hanno rinunciato a percepire qualsiasi diritto d’autore), quelle di ben sette traduttori. «Ma nessuno ha svolto indipendentemente la sua parte di lavoro» ci tiene a precisare D’Intino: «Ci incontravamo periodicamente, in un agriturismo delle Marche, per confrontarci su ogni minima sfumatura di significato presente nel linguaggio di Leopardi. È stata un’esperienza lunga e intensa, difficile ma molto gratificante». Non mi riesce difficile crederlo.
Quella che D’Intino mi racconta è una bella storia sia dal punto di vista personale sia culturale. E mi viene spontaneo chiedergli a che tipo di giudizio, o pregiudizio, vada incontro un ventenne d’oggi, che decida di andare all’estero per studiare e insegnare la letteratura italiana. «Potrebbe sembrare sorprendente, vista la cattiva fama del sistema accademico italiano, le carenze delle biblioteche e tutti gli altri handicap che un ragazzo italiano deve affrontare nei primi tempi della sua formazione. Eppure, all’estero i nostri studenti hanno molto successo. C’entra anche il liceo, dove nonostante tutto ci sono degli ottimi professori e si studiano più materie. In Inghilterra, l’ultimo anno se ne studiano soltanto due! Ma la vera chiave, secondo me, è un’altra: la passione o, se vuoi, la tigna. Evidentemente, siamo un popolo capace di investire molto nelle cose che ci interessano. E questa è una caratteristica preziosa, che finisce necessariamente per essere ammirata».
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