PENSIONI D’ORO, È L’ORA DELLA TRASPARENZA

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Dopo una lunga stagnazione e due pesanti recessioni intervenute a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, dopo che le disuguaglianze nei redditi, già alte in rapporto al resto d’Europa, sono aumentate di un ulteriore 10 per cento, l’invidia è un sentimento molto diffuso nel nostro Paese. Non c’è alcun bisogno di alimentarlo. Quei tre milioni e più di disoccupati che vivono in Italia ovviamente invidiano chi un lavoro ce l’ha. E come non capire cosa prova chi riceve una pensione sociale di 442 euro al mese apprendendo che c’è chi ottiene quella cifra dall’Inps ad ogni ora del giorno che scocca, beneficiando di una pensione più di 200 volte superiore alla propria?
Speriamo allora che il vero intento del ministero del Lavoro e delle politiche sociali sia quello di preparare il terreno all’introduzione nella Legge di Stabilità, che verrà presentata da qui a poche settimane, di un qualche taglio (o prelievo) sulle pensioni d’oro. Del resto era stato proprio il neo ministro Giovannini, a pochi giorni dal suo insediamento, a fare riferimento a interventi sulle pensioni che «non porterebbero molti soldi, ma sarebbero una misura di giustizia sociale».
Se questo è dunque l’obiettivo del governo, ci permettiamo di suggerire a Dell’Aringa di rendere pubblico al più presto quanto i beneficiari di questi mega assegni hanno versato nel corso della loro intera carriera lavorativa. In altre parole, bisogna rendere noti non solo i livelli delle pensioni d’oro, ma anche i rendimenti impliciti che sono stati concessi dal sistema previdenziale pubblico ai contributi versati dai pensionati d’oro e dai loro datori di lavoro.
Servirà questa informazione innanzitutto per evitare possibili censure della Consulta in nome della violazione di “diritti acquisiti”. Se non si rendono pubbliche queste informazioni sarà sempre possibile sostenere che, dopotutto, i beneficiari di queste prestazioni milionarie se le sono pagate coi loro contributi in anni di lavoro. Ad esempio Federico de Rosa sul Corriere della Sera del 9 agosto scrive che Mauro Sentinelli, colui che guida la classifica dei top ten, “oggi incassa grosso modo lo stesso che percepiva da direttore generale di Telecom Italia”. Non sappiamo nulla della carriera di Sentinelli, ma la domanda da porsi non è quanto fosse il suo stipendio sul finire della carriera. Ciò che conta è quanto l’ex manager di Telecom ha effettivamente versato all’Inps durante la sua vita per meritarsi una pensione che, a 57 anni, quando è andato in pensione, valeva complessivamente quasi 20 milioni. È come se lo Stato italiano lo avesse reso proprietario di un immobile del valore di un quinto di Villa Belvedere a Macherio. Ogni pensione calcolata in Italia con un metodo diverso da quello contributivo, quello che oggi viene praticato a tutti i contributi versati dai lavoratori italiani, attribuisce prestazioni superiori ai contributi versati in termini attuariali, attribuisce prestazioni superiori a quanto pagato o accantonato. E il sospetto è poi che non pochi dei pensionati d’oro abbiano potuto fruire di regalie molto generose fatte per ragioni di consenso elettorale soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, scaricandone i costi sui contribuenti futuri.
Ricordiamoci che ai lavoratori autonomi negli anni di esplosione del debito pubblico era stato concesso di andare in pensione con le regole del metodo retributivo, quelle che consentivano allora versando i contributi negli ultimi tre anni di una carriera di ottenere poi pensioni del 70%-80% dell’ultimo reddito dichiarato. E a molti lavoratori dipendenti prima della riforma Amato venivano aumentati i salari negli ultimi anni in modo tale da permettere loro di ricevere una pensione più alta, perché parametrata alle retribuzioni degli ultimi 5 anni. Altro che pensioni maturate coi sacrifici di una vita e su cui si era a lungo pianificato! In casi come questi si tratta di “regali acquisiti” poco prima di andare in pensione. Questi regali insostenibili hanno poi obbligato governi successivi a mutare più volte le regole previdenziali, riducendo la generosità delle prestazioni a chi aveva versato i propri contributi contando poi di ricevere pensioni più pesanti. Non sono anche questi, soprattutto questi, “diritti acquisiti”? E se questo è il fondamento di molte pensioni d’oro,
perché è in linea coi principi costituzionali chiedere di più a “chi ha di più” come fa il nostro sistema tributario, ma non lo è chiedere di più a “chi ha avuto di più”, togliendo ad altri “diritti acquisiti”?
I dati sui rendimenti impliciti servirebbero anche a meglio calibrare gli interventi perequativi. Ad esempio, si dovrebbe ridurre l’ammontare delle quiescenze a chi soddisfa due criteri: il primo è quello di ricevere un ammontare totale di pensioni (ci sono molte persone che percepiscono più di una pensione) al di sopra di una certa soglia; il secondo è quello di ottenere questo reddito prevalentemente da una pensione il cui rendimento implicito è molto elevato. Il primo criterio (quello che guarda all’ammontare complessivo delle pensioni) serve a tutelare il principio di equità redistributiva, sostenendo nella vecchiaia chi non ha accumulato abbastanza contributi. Il secondo criterio (quello che guarda alle pensioni in rapporto ai contributi versati) tutela l’equità intergenerazionale, chiedendo qualche sacrificio in più a chi ha avuto
troppo dalle vecchie regole del sistema pensionistico. I risparmi così ottenuti potrebbero essere utilizzati per dotare il nostro paese di quegli strumenti di contrasto alla povertà assoluta che, unici in Europa assieme alla Grecia, tuttora non abbiamo. Alcune simulazioni svolte con Tommaso Nannicini (e raccolte sul sito lavoce. info) ci portano a pensare che tagli anche esigui (attorno al 2 per cento delle quiescenze che soddisfino i due criteri di cui sopra) sarebbero sufficienti a finanziare un reddito minimo garantito se non per tutti, almeno per quelle fasce di età che sono state particolarmente colpite dalla crisi, come le generazioni coinvolte nella vicenda esodati o quelle travolte dall’esplosione della disoccupazione giovanile.
Pubblicare i rendimenti impliciti di ogni prestazione oggi erogata dal sistema pubblico rispetto ai contributi versati sarebbe una vera operazione di trasparenza sulle iniquità del nostro sistema previdenziale. Servirebbe anche a rafforzare conoscenze finanziarie di base per chi deve costruirsi il proprio futuro previdenziale.
Capire cosa ci può attendere dal sistema pubblico rispetto a quanto accaduto ai propri genitori è importante per permettere alle nuove generazioni di trovare correttivi, ad esempio spingendo chi può farlo a costruirsi forme previdenziali integrative. A proposito: è davvero fondamentale permettere a chi oggi si trova a meno di 5 anni dal raggiungimento dell’età di pensionamento obbligatoria di poter riscattare i contributi versati ai fondi pensione in caso di perdurante disoccupazione. Assurdo che molti esodati non possano oggi farlo nonostante il dramma che stanno vivendo. Mi chiedo come si possa pensare di sostenere in Italia il decollo dei fondi pensione mantenendo in piedi una restrizione di questo tipo. E come sia possibile impedire di tagliare le pensioni d’oro per aiutare i lavoratori esodati, in nome dei “diritti acquisiti”. Ma di quali diritti stiamo parlando al cospetto di persone che hanno visto allontanarsi la pensione e accorciarsi il periodo di fruizione dei trattamenti di mobilità?


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