È il romanzo storico l’eterno peccato d’Italia

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«Ricordi, professore: non vita lunga, vita larga!», mi disse una volta una signora vedendomi stranamente un po’ esitante davanti a una ricca tavola imbandita. Giancarlo Vigorelli ha avuto, per sua e ancor più per nostra fortuna, una vita lunga — è morto a 92 anni nel 2005 e in queste settimane è stato ricordato il centenario della sua nascita — ma ha avuto soprattutto una vita larga, piena di realtà. Giancarlo il Grande, come lo chiamavo, aveva questo senso della larghezza nel significato che Saba dava a tale parola, quando diceva che la sua poesia non aveva solo la profondità e l’altezza di altri grandi lirici, ma anche e soprattutto la larghezza, la capacità di accogliere la vita intera, l’unità delle sue voci «invano discordi», la tempestosa e spietata passione dei momenti inferi o celesti ma pure la piana semplicità quotidiana.
Vigorelli aveva il senso dell’inesauribile ricchezza della vita — contraddittoria, imprevedibile, feconda ancorché drammatica e talora pure terribile e crudele. Aveva egli stesso, in qualche modo, più vite, anche intellettualmente. La sua creatività critica e saggistica rivela una polifonia eccezionale, una tastiera ricchissima, varia nei temi, nelle misure, nell’intonazione, nell’approccio. La sua opera abbraccia volumi d’ampio respiro, in cui la ricostruzione storica e filologica si unisce originalmente a meditate e talora allergiche interpretazioni critiche. Brevi note fulminee, recensioni essenziali, motivazioni di premi, attacchi irruenti e discorsi ufficiali e rappresentativi, da ambasciatore della Letteratura e della Cultura quale egli anche era. I grandi testi su Manzoni, le centinaia e centinaia di articoli dedicati a opere famose o minori e sconosciute, ad autori delle letterature più diverse, alle figure grandi e minori, alle foreste e agli oceani ma anche ai piccoli orti d’autentica poesia. La sua scrittura dimostra una grande umiltà, che contrasta felicemente con l’impetuosa e talora debordante, umorale, smodata vitalità della sua persona; una volontà — come ha scritto egli stesso — di «stare dentro ai fatti e alle persone» senza piegarli alle proprie opinioni e aspettative.
Questa larghezza ha portato Vigorelli a essere non solo uno studioso, un saggista, il curatore di tanti classici italiani e stranieri, l’autore di tante opere, il vincitore di molti premi e pure l’elargitore di premi ad altri, ma anche un critico militante, per il quale la vita letteraria di un Paese è come la vita di scuola (quella scuola che egli peraltro ha concretamente conosciuto e amato), con momenti eccezionali o di ordinaria amministrazione ma ugualmente necessari. Così egli è stato un protagonista anche della vita mondana della letteratura, dalle giurie dei premi a tante iniziative ed eventi di ogni genere, culturali, radiofonici, televisivi. In questo fervore c’era pure la sua talora anche aggressiva e talora faziosa sete di vita, di «così tante vite», come si intitola il volume fotografico dedicatogli da Carla Tolomeo, Gian Paolo Serino e Lorenzo Butti — una sete intellettuale, morale, sensuale. Le fotografie lo mostrano insieme a grandi scrittori, capi di Stato, attori famosi e attrici bellissime, in una mondanità che non è solo effimero o vacuità letteraria, ma brama del mondo, grande e piccolo. Infatti si prodigava pure per scrittori sconosciuti, per libri che passavano o rischiavano di passare inosservati.
Giancarlo Vigorelli ha avuto un senso forte della letteratura quale Istituzione, che include una difesa dell’umano. In questa prospettiva si inquadra la sua attività nella e per la Comunità europea degli scrittori, che ha svolto una fondamentale funzione di diffusione e difesa della libertà della cultura e, concretamente, dei diritti umani di molte persone. «L’Europa letteraria» e la «Nuova Rivista Europea», da lui dirette, sono state un ponte culturale, in tempi di guerra fredda, di isolamento e di esclusione. Grazie a queste riviste, e a lui, molti — specialmente ma non solo nei Paesi governati da regimi totalitari — si sono sentiti meno soli e sperduti. In quegli anni, quando si arrivava in quei Paesi dall’Italia, una delle prime cose che venivano chieste erano notizie di Vigorelli; si parlava e si chiedeva di lui, gli si esprimevano gratitudine e gli si facevano auguri…
Se si dovessero indicare le due origini fondamentali di Vigorelli, bisognerebbe parlare di Lombardia e di Cattolicesimo, uniti nel nome di Manzoni, sul quale egli ha scritto le sue pagine più alte. Cattolicesimo lombardo, fattivo e illuminista ma anche concreto e sensuale, permeato fisicamente dal senso della terra, della Storia, della tradizione e del suo evolversi, della pietas. Del Cattolicesimo Vigorelli aveva un’altra componente essenziale, quel senso forte, concreto, carnale, della materia di cui siamo fatti, del corpo, dello spirito che si fa carne, come ha scritto definitivamente Chesterton: «C’è una cosa che distingue le grandi religioni dalle pacchiane superstizioni spiritualeggianti: il loro genuino, autentico materialismo». Non a caso Vigorelli ha scritto un libro — centrale nel suo percorso — su Teilhard de Chardin, il sacerdote cristiano che cercava Dio, e la sua trascendenza, nel concreto, materiale divenire dell’universo (Il gesuita proibito, 1963).
La larga vita di Vigorelli racchiude anche scatti morali e umorali eccessivi, intemperanze, sfoghi ingiusti, attacchi più impulsivi che meditati, errori. Non è stato un critico prudente e cauto, ma piuttosto, anche come critico, un avventuroso e gagliardo peccatore. Un’esistenza intellettuale e operosa come la sua corre facilmente il rischio di disperdersi in mille rivoli, in guizzi folgoranti ma presto spenti eppure non perciò meno degni, perché esprimono una umile creatività quotidiana che, come la fatica di una madre di famiglia, manda avanti una vita. Ma ciò non ha impedito a Vigorelli di lasciarci contributi critici di lunga durata, che continuano e continueranno ad illuminare la comprensione del mondo e della letteratura che cerca di rappresentarlo.
Basti citare uno fra tutti, forse il più grande, Il peccato del romanzo, che — imperniato, ma non solo, su Manzoni — affronta a fondo la grande ferita della letteratura italiana che arriva in ritardo e con difficoltà, ma con tanta grandezza, al romanzo. Un libro — ora introdotto da un altro caro e generoso amico scomparso che molto ha dato alle nostre lettere, Sergio Pautasso — che affronta l’essenza stessa del romanzo quale genere narrativo della disillusione e della perdita della totalità, quale «peccato», quale inadeguatezza (propria in sé del grande romanzo moderno e contemporaneo occidentale) nell’affrontare la storia della vita. Forse — si potrebbe aggiungere — vale in genere per quasi ogni autore del grande romanzo moderno la definizione evangelica di «servo inutile».
Ma è confrontandosi con questa difficoltà di dire la Storia, con questa inadeguatezza, che il romanzo — Manzoni, ma anche tanti grandi narratori da lui così diversi — è riuscito a dire la vita, a trasformare il peccato e l’aridità in grazia. Vigorelli, i cui peccati erano più per eccesso che per difetto, aiuta, fra tante altre cose, pure a capire quella grande assenza che è l’orizzonte prevalente, ma non l’unico, di chi cerca di raccontare la vita.
Da lui ho ricevuto affetto e incoraggiamento, con lui ho passato belle ore, fatte di discussioni ma anche di risate. L’ultima sua immagine, per me, è quella di lui che cerca invano di sistemarsi, in un albergo triestino dove si trovava in occasione di una conferenza e che non era proprio un albergo da Vip, in una poltroncina troppo piccola per la sua corporatura, ridendo e lasciandosi pure scappare qualche colorita espressione che non è bene riportare in un giornale rispettabile.


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