by Sergio Segio | 13 Agosto 2013 7:23
L’AVANA
L’abitudine di svegliarsi presto non la perdono neppure a L’Avana. «Ci alziamo alle 4.30h per svegliare i galli e farli cantare», mi dice sorridendo Ricardo Tèllez, meglio noto come Rodrigo Granda.
L’appuntamento è alle 7 della mattina per intervistare tre membri della Direzione esecutiva, il più alto organo direttivo delle Farc. Sono loro che conducono i negoziati che l’organizzazione porta avanti con il governo colombiano a L’Avana. Nel grande salone della casa di «El Laguito» in cui alloggiano arrivano anche Ivan Márquez e Pablo Catatumbo. Granda si accende una sigaretta e beve la seconda tazza di caffè. Marquez tiene in mano un grosso sigaro cubano che accenderà «dopo aver fatto colazione». Catatumbo sorseggia il suo caffè. È la prima volta che un giornalista riesce a riunire questi tre dirigenti guerriglieri.
Dopo sette mesi di di dialoghi e negoziati con la commissione del governo siete ancora ottimisti?
Ivan Márquez: L’ottimismo delle Farc viene dalla determinazione a cercare una soluzione politica a questo conflitto, che dura già da quasi 50 anni. Dato che, sul piano militare, nessuna delle due fazioni è in grado di sconfiggere l’altra, dobbiamo cercare un’alternativa.
Nelle guerre, le trattative devono essere condotte da entrambi i contendenti. A me pare che siate voi quelli che dettano il ritmo.
IM: Il governo ha sempre avuto la tendenza a cercare la pace attraverso la sottomissione della guerriglia, anziché con cambi strutturali. Si vuole ottenere una pace gratuita per le oligarchie. Noi, invece, vogliamo una democrazia reale, in cui le gente possa far valere la sua opinione senza essere stigmatizzata o assassinata.
Forse sbaglio, ma, in certi frangenti, mi pare che il presidente Juan Manuel Santos voglia tirarsi indietro.
Rodrigo Granda: Non credo che lo faccia, però è vero che sembra spaventato. È come se avesse paura dell’ex presidente Álvaro Uribe, degli allevatori, del potere narco-paramilitare e del settore più retrivo delle Forze armate. E ha paura nonostante conti sull’appoggio di una parte importante degli industriali, dei banchieri, della Chiesa e dei colombiani, l’87% dei quali – secondo i sondaggi – vuole la pace.
Mi sembra che stiate chiedendo riforme istituzionali e la modernizzazione dello stato, può sembrare contraddittorio per un’organizzazione di guerriglia comunista marxista-leninista.
IM: Non stiamo proponendo cambi radicali alle strutture politiche né a quelle economiche dello stato. Al tavolo dei negoziati non si parla di socialismo né di comunismo. Il nostro obiettivo è piuttosto quello di creare le condizioni par raggiungere un’intesa con il governo. E sappiamo che per questa ragione alcune organizzazioni di sinistra, non solo colombiane, dicono che siamo diventati una guerriglia riformista.
Dialogo a L’Avana e forti scontri militari in Colombia…
R.G: È il governo che non vuole un cessate il fuoco, anche se ora, da entrambe le parti è stata presa la decisione di non tenere in considerazione ciò che accade al di fuori del tavolo dei negoziati. Noi abbiamo dimostrato buona volontà, ad esempio con la tregua unilaterale di Natale, anche se fummo costretti a difenderci dalle aggressioni dell’esercito.
Qual è stato, fino ad ora, il punto su cui il governo si è mostrato più intransigente?
IM: Senza dubbio la proprietà dei latifondi su cui il governo è determinato a non intervenire, anche se la maggior parte di essa deriva da spoliazioni violente. Il governo ha paura di toccare un terzo dei 30 milioni di ettari di terra che possiedono gli allevatori e i latifondisti, nonostante siano terreni incolti.
Se il governo colombiano si è deciso a negoziare con le Farc è perché Washington ha dato il via libera…
IM: Recentemente 62 parlamentari statunitensi (tra cui 2 repubblicani), hanno sottoscritto un documento di appoggio al dialogo. E anche la Casa bianca e il Dipartimento di stato hanno espresso il loro sostegno, anche se, ovviamente, lì esistono varie divisioni, dato che il conflitto colombiano genera soldi.
Voi siete decisi ad abbandonare la lotta armata. Che cos’ha da offrirvi il governo affinché ciò accada? E voi in che cosa vi trasformereste?
RG: Noi non abbiamo mai affermato che la lotta armata sia l’unico modo di cambiare il paese. Abbiamo imbracciato le armi, e continuiamo ad usarle, perché ci hanno chiuso con la forza le porte della partecipazione politica. Ma se cessasse la minaccia di morte permanente nei confronti dell’opposizione e si attuassero delle riforme politiche che possano incamminare il paese verso la democrazia partecipativa, noi accetteremmo la sfida politica.
Pablo Catatumbo: C’è bisogno di costruire un forte movimento di massa che imponga i cambiamenti, perché l’ordine costituito non concede regali. Questo è un compito nostro, dei militanti di sinistra, dei democratici, di quelli che vogliono una nuova Colombia. Questo è il punto e la sfida. Però una cosa ci è ben chiara: non siamo disposti a ripetere l’esperienza dell’Unión patriótica, durante la quale furono uccise quasi 4mila persone tra militanti e dirigenti.
Chiederete perdono per la sofferenza causata da parte vostra in questa guerra?
PC: Senza dubbio abbiamo commesso errori, alcuni dei quali anche gravi. Però, qualsiasi cosa dica la propaganda, l’attacco alla popolazione non è stata una strategia delle Farc. Io non ho nessun problema nel dire a una donna, a una famiglia che mi dispiace per il dolore che abbiamo provocato con l’uccisione di un suo caro. Dobbiamo chiedere perdono? Allora che si siedano a chiederlo con noi anche le lobby economiche che hanno finanziato la guerra e i paramilitari; che si scusino tutte le istituzioni dello stato, che sono programmate per la repressione e l’impunità; i grandi mezzi di comunicazione che hanno diffuso la stigmatizzazione degli organismi di sicurezza che ha precedutogli assassinii e i massacri; anche i partiti politici di destra devono sedersi a chiedere perdono e ammettere le loro responsabilità, così come gli ex presidenti della Repubblica che diedero gli ordini. Nemmeno la Chiesa può eludere le sue colpe! E non possono restare fuori da quest’atto di assunzione di responsabilità nemmeno i governi di Stati Uniti, Israele, alcuni paesi europei, e chiunque abbia appoggiato i governi criminali della Colombia. Se ci sedessimo tutti insieme potremmo vedere chi davvero sono stati i terroristi e gli assassini del popolo.
In conclusione, devo riconoscere di essere molto ottimista con questi negoziati. Credo che la Colombia e i colombiani si meritino pace e giustizia sociale, però conosco lo stato Colombiano e gli Stati Uniti, che sono quelli che decidono. Spero proprio che possa finire questa lunga notte che ha fatto calare il terrorismo di stato! Lo auguro di tutto cuore.
PC. Le condizioni politiche in America latina stanno cambiando. Chi avrebbe immaginato quel che è successo in Venezuela e in Bolivia con l’arrivo di Chavez e di Evo? Chi avrebbe immaginato che arrivassero altri governi in America latina per esigere dagli Stati uniti il rispetto della sovranità? Esistono cose imprevedibili, come la fine dell’Unione sovietica. In Colombia c’è un accumulo di fame, esclusione, ingiustizia e repressione. Arriva un momento in cui la gente non ce la fa più: c’è un fermento che potrebbe esplodere domani stesso. Oltretutto la problematica colombiana non è isolata. I paesi vicini stanno esercitando pressione sul governo perché sono stanchi delle ripercussioni del conflitto. In Venezuela ci sono 4 milioni di sfollati e in Ecuador quasi 2. Calcoliamo che nei paesi limitrofi vivano tra i 13 e i 15 milioni di colombiani, ovvero un terzo della popolazione del paese. Noi rivoluzionari dobbiamo essere ottimisti, persino nelle situazioni peggiori e infatti crediamo che la pace arriverà perché ce la meritiamo. L’altra prospettiva è la guerra totale.
* giornalista e scrittore colombiano, collaboratore di Le Monde diplomatique (traduzione di Giuseppe Grosso)
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