«Non vogliamo il bagno di sangue» I militari egiziani rinviano il blitz

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Ancora un volta l’Egitto ha sorpreso, smentendo le aspettative diffuse domenica che ieri sarebbe stato il «D-Day» per i generali e il governo ad interim da loro insediato dopo la deposizione del raìs islamico Mohammad Morsi, il 3 luglio. L’attesa «pulizia definitiva» dei due giganteschi sit-in organizzati nella capitale dai Fratelli Musulmani non è avvenuta. Da oltre un mese nella piazza di Al Nahda a Giza e ancor più alla moschea di Rabaa Al Adawiya a Nasr City, decine di migliaia di sostenitori di Morsi sono accampati per protestare contro il golpe militar-popolare, per chiedere il ritorno della legalità e dell’ex presidente detenuto in isolamento da sei settimane in un «posto sicuro». «C’è un limite alla nostra pazienza, nessun governo democratico potrebbe accettare assembramenti che minacciano la sicurezza» aveva ribadito domenica il ministro degli Esteri Nabil Fahmy. Fonti della polizia avevano aggiunto: passata Eid Al Fitr, la festa che chiude il Ramadan, finita appunto domenica, agiremo. E ai manifestanti: andatevene finché siete in tempo.
Invece, ai sit-in, la gente è perfino aumentata. Protetta da cordoni di uomini con bastoni e pietre, da barricate di sacchi di sabbia, in attesa dell’arrivo di poliziotti e soldati, dei blindati e degli elicotteri Apache. In attesa, insieme al mondo, di un nuovo, inevitabile bagno di sangue: dopo i quasi 300 morti da inizio luglio – quasi tutti Fratelli uccisi dalle forze dell’ordine – vista la determinazione dei manifestanti a non cedere e il noto odio verso di loro della polizia, la possibilità di uno sgombero pacifico era ritenuta da tutti vicina allo zero.
E’ stato certo per questo che ieri il generale Abdel Fattah Al Sisi, capo del Consiglio militare e di fatto reggente del Paese, ha preferito aspettare. La mediazione tentata per settimane dalla diplomazia internazionale – Europa, Usa, Golfo – a fine luglio era stata dichiarata finita e fallita. Ma se ufficialmente la comunità internazionale è ora in disparte – le accuse di «interferenza straniera» erano e restano potenti in Egitto – i rapporti con i «grandi del mondo» non sono certo secondari per il Cairo. Inoltre, il «fronte anti-Morsi» è diviso. Ad appoggiare la sua rimozione, dopo un anno dalla vittoria nelle prime elezioni libere del Paese, erano stati tutti, tranne ovviamente la Fratellanza. Compresi molti liberal e «giovani ribelli». Ma il pugno di ferro di Al Sisi, appoggiato dalle intelligence militari, dalle forze di sicurezza e dai sopravvissuti del vecchio regime, non è condiviso all’unanimità. Secondo fonti diplomatiche soprattutto Mohammad El Baradei, il premio Nobel nominato vice raìs ad interim, sta insistendo per una soluzione non violenta della crisi. Sui media locali qualcuno ha iniziato ad attaccarlo per questo, ma il rischio che si dimetta è troppo grande per Al Sisi a livello internazionale: ElBaradei è la «prova» che il 3 luglio non si è consumato un golpe ma ha vinto la democrazia. Perderlo ora sarebbe un disastro.
La Restaurazione però non si ferma: ieri 20 governatori sono stati insediati al posto di quelli nominati da Morsi, per quest’ultimo il fermo per un’evasione dal carcere nel 2011 è stato prolungato di 15 giorni; i salafiti del partito islamico Al Nour hanno cambiato posizione e dato il proprio sostegno ai militari, dichiarando di non opporsi a far parte dell’assemblea che scriverà la nuova costituzione. Se la Fratellanza sarebbe ormai pronta a cedere sul ritorno definitivo di Morsi a raìs, un accordo resta difficilissimo. Anche l’offerta di mediazione dell’università Al Azhar di due giorni fa è stata respinta dai Fratelli. Non sorprende: accanto ad Al Sisi, quando depose Morsi in diretta tv, il 3 luglio c’era pure il Grande Imam, il capo di Al Azhar.
Cecilia Zecchinelli


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