QUANDO LE CARCERI ERANO PIÙ “SOCIAL”

by Sergio Segio | 13 Agosto 2013 6:37

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Lo storico studia il passato per comprendere il presente. Ciò vale anche per uno dei problemi che maggiormente assillano le nostre società, il sovraffollamento delle carceri e la segregazione sociale dei prigioneri. Lo dimostra lo storico olandese Guy Geltner in un libro tradotto in italiano per l’editore Viella, La prigione medievale. Una storia sociale (pagg. 232, euro 25). È la storia di un contrasto impressionante tra il presente e il periodo in cui inizia la storia delle prigioni nelle città italiane, tra Due e Trecento.
Quando il primo novembre 1333, le cateratte del cielo si aprirono sulla Toscana provocando una delle più terribili inondazioni di Firenze — stando al vivido racconto di Giovanni Villani — le autorità cittadine mandarono subito un avviso per evacuare i detenuti che si trovavano nel carcere delle Stinche al livello del suolo o al di sotto. I sovrintendenti delle carceri, aiutati dai guardiani, fecero evacuare i prigionieri «affinché potessero scampare alla morte che sicuramente sarebbe derivata da detta inondazione se essi non fossero stati subito liberati ». A New Orleans, due giorni dopo l’uragano Katrina (23 agosto 2005), gli ufficiali stavano «elaborando un piano per evacuare cinquemila prigionieri » e in Indonesia, nel 2004, più di una settimana dopo il terribile tsunami, si trovò l’intera comunità carceraria annegata.
Nel corso degli ultimi decenni le prigioni sono state progressivamente cancellate dagli spazi urbani occidentali. Nel Medioevo, invece, le prigioni erano sempre situate nel cuore fisico e politico della città. Le prigioni medievali si sviluppano del resto da una cella di custodia all’interno e nelle vicinanze degli edifici di governo delle città, mai in edifici separati. Sono prigioni che hanno bisogno di poche guardie, talvolta persino di nessuna. Essendo vicine ai luoghi del potere civico, le prigioni potevano essere meglio controllate anche dai responsabili dell’amministrazione della giustizia. La prigione poteva così anche svolgere una funzione didattica, promuovendo le virtù e i valori sociali dei governi cittadini.
Nei comuni italiani medievali, i prigionieri godevano insomma di possibili interazioni con la società libera, secondo il modello che regolava il rapporto dei lebbrosi con la società sana, di «rozza tolleranza», equivalente a una sorta di compromesso tra esclusione e integrazione, tra accettazione e rifiuto.
Sono situazioni che contrastano fortemente con altri fenomeni ben più repressivi di cui si conoscono infiniti esempi proprio nel periodo in cui nascono le prigioni medievali: la lotta contro le eresie (che sfociarono nella guerra contro gli Albigesi voluta da Innocenzo III), le espulsioni degli ebrei volute verso la fine del secolo dai re d’Inghilterra e di Francia o le sanguinose violenze perpetrate dall’ordine teutonico contro gli abitanti del Kulmerland durante la cristianizzazione della Prussia e dei Paesi Baltici (straordinario è il racconto che ci tramanda la Cronaca della terra di Prussia di Pietro di Dusburg, ora tradotta da Piero Bugiani, Fondazione Centro italiano di studi sull’Alto Medioevo, pagg. 682, euro 70).
Sono gli anni in cui l’inquisitore domenicano Bernardo Gui (reso celebre da Il nome della rosa di Umberto Eco) emette sentenze di carcerazione per oltre la metà delle pene da lui comminate. Oltre a diventare sanzione penale, per gli inquisitori la carcerazione svolge una funzione precisa, quella di permettere di scovare sempre nuovi complici, anche grazie alla tortura. Si vengono così a creare nuovi bisogni di maggior spazio di custodia. E la prigione incomincerà lentamente ad evolvere verso le forme moderne, ancor oggi dominanti, di segregazione e di controllo
sociale.
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IL SAGGIO
La prigione medievaledi Guy Geltner (Viella, trad. di A. Vanoli pagg. 232 euro 25)

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