Marina sì, no, chissà così il partito-azienda diventa una dinastia

by Sergio Segio | 11 Agosto 2013 14:13

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MARINA sì, Marina no, Marina forse, Marina chissà. L’estate agogna i tormentoni e le saghe dinastiche sembrano fatte apposta. Ma nel frattempo agosto va consumandosi, e così tra improbabili ritorni e necessitate abdicazioni il tempo comincia a stringere sul serio, per tutti.

A TUTT’OGGI Marina — che poi senza alcuna colpa si chiama Maria Elvira — avrebbe detto di no. Le motivazioni di giornata, per non dire il kit mediatico dell’ultimo o penultimo diniego, riguarderebbero nell’ordine: l’impreparazione del soggetto dinanzi all’arte della politica; la stabilità e il destino delle aziende; le cosiddette “sofferenze” che inesorabilmente toccano in sorte a chi scende nell’agone.
Ancorché autentiche, queste ultime rientrano tuttavia a pieno titolo nella retorica e anche nell’epica berlusconiane, a suo tempo e proprio in nome dei sicuri patimenti essendosi opposta Mamma Rosa all’impegno del figlio, ma alla fine l’eroe Silvio decise di salvare l’Italia eccetera, e la mamma non solo comprese, ma benedì il proposito. Questo per dire che le obiezioni, in tali faccende, oltre che ricorrenti, sono sempre superabili.
Anche in questi giorni, anche in questa occasione, i giornali del centrodestra mettono in scena il consueto gioco di sponda, delle parti e degli specchi.
Libero dice che Marina sì, il Giornale dice che Marina no. Si perdoni il tono un po’ sbrigativo, ma per chi assegna un minimo d’importanza alla memoria il disincanto si spiega con la circostanza che questa storia va avanti, tra presunte accelerazioni e pretese frenate, dall’autunno del 2010. Almeno. Ragion per cui, con il dovuto sgomento provato davanti al vano scorrere del tempo e al malinconico ripetersi del provvisorio, ci si gira e rigira tra le mani la prima pagina del Giornale del 23 gennaio 2011 su cui campeggia il risoluto titolo: “Scende in campo Marina B. ”. E vabbè, pazienza.
Più interessante sarebbe stato indagare, magari attraverso un algoritmo, la cadenza, la persistenza, la regolarità e magari anche il motore segreto di queste specie di sollecitazioni a mezzo stampa. Ma prima gli impicci giudiziari, poi il fallimento politico, quindi gli scandali sessuali e adesso la condanna di papà Silvio parlano da sé e dicono appunto la fine di un ciclo. Che però potrebbe seguitare per via biologica, aziendale, ereditaria e perfino visiva, a tal punto assomigliando Marina al papà da sembrare un Berlusconi giovane con la parrucca da donna.
Eppure negli esercizi di divinazione rimane finora muta una fonte a suo modo fondamentale, il rotocalco della Real Casa Chi,diretto da Alfonso Signorini, che di Marina è così amico da avere in comune addirittura la maga. Rotocalco cortigiano per eccellenza, nell’agosto di tre anni fa sulle sue pagine patinate prese corpo, letteralmente, quella che si poteva addirittura immaginare come la primissima investitura, allorché Signorini volle offrire ai suoi lettori le foto di lei a petto nudo, e superbo: “Selvaggia bellezza a cavallo di una tecnologica moto d’acqua tra le onde cristalline delle Bermuda”. Non solo, ma il processo di mitopoiesi, o costruzione mitica, fu accompagnato, e anche qui alla lettera, da una valutazione secondo cui Marina era da considerarsi «la più bella delle Nereidi, Galatea, dalla pelle bianco latte».
Come si vede, il richiamo trascende la semplice dimensione regale, che pure aveva dato significativa prova di sé quando (2004) la figlia del sovrano aveva fatto nascere con parto pilotato il suo secondogenito, ovviamente battezzato Silvio, lo stesso giorno del nonno, come “speciale regalo di compleanno”.
Per ritornare al tema della successione: in tale contesto, e tanto più nel disastrato paesaggio del potere italiano, il giornalismo politico non si sente di escludere nulla, ma proprio nulla. Compreso un improvviso e imprevisto cambio di erede alla guida della rinata Forza Italia. Il più mite Piersilvio, per dire, che è intervenuto assai meno dell’animosa sorella nelle storiacce della politica e al quale, per i suoi quarant’anni, il padre recò in dono una collezione di ben otto bastoni ciascuno con un pomello raffigurante un’immagine simbolica del comando — e ce ne sarà pure una adatta alla politica.
Oppure qualche figlio di secondo letto, recuperando così il vantaggio di Veronica. Ma se Barbara sembra più coinvolta dal calcio, ed Eleonora da altro, per un’ipotesi di pacificazione potrebbe andare benissimo Luigino, di cui pure s’è detto che era molto religioso, e data l’aria francescana che tira in Vaticano l’idea potrebbe lievitare con implicazioni ancora più promettenti nel caso il giovane sposasse con una giovane donna di sinistra, così ripristinando le sperimentate risorse dei matrimoni dinastici.
Non c’è troppo da sorridere.
Più che una inconfessabile monarchia, il berlusconismo si è vissuto e rappresentato come una dinastia. Nella tardomodernità, del resto, al grado zero della democrazia riemergono in chiave tecnologica e televisiva segni, simboli e visioni di un potere molto antico: troni, corone, investiture, giuramenti, cortigiani, cortigiane, ruffiani, servi, guardie, e maledizioni, duelli, roghi, predicatori, processioni.
Scampata alla Lega con il Trota, la successione del sangue riacquista nel partito carismatico e aziendale un suo “quid”, anche in termini di continuità e di suggestione populista, Sennonché, come sempre accade nella storia, “si trova questo nell’ordine delle cose, che mai non si cerca fuggire uno inconveniente che non si incorra in uno altro”. E quindi, secondo la lezione di Machiavelli, dinastia per dinastia, se i falchi del Pdl puntano su Marina, non è detto che le colombe, con il dovuto contorno di poteri forti, non cerchino di reclamare la corona per qualche altro figlio.
Lo spiegava l’altro giorno su www. succedeoggi. it Nicola Fano, che tra l’altro ha studiato le maschere del teatro italiano, ricordando la vicenda, pure shakespeariana, di Enrico VIII, cui seguì il piccolo Edoardo VI, e furono stragi di cattolici, e poi fu il turno di Maria, detta “la Sanguinaria” per il modo in cui trattò i protestanti. In tutto trent’anni di guai. Troppi, onestamente, per un tormentone estivo nel paese della commedia e del melodramma.

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