La disperata ricerca di tasse «buone»
Più precisamente dagli esponenti del Pdl i quali, monitorando attentamente il consenso demoscopico, hanno capito che immettere nell’agenda delle priorità governative il tema «Imu» comporta dei vantaggi immediati, se non altro perché contribuisce a riportare il partito di Silvio Berlusconi virtualmente in testa nella competizione elettorale. L’amministrazione e il governo rispondono quindi tentando di quadrare il cerchio, fare propria l’aspettativa popolare di una riduzione della tassa sulla cassa senza compromettere i conti pubblici e la vera agenda del governo quella che, ad esempio, privilegerebbe la riduzione del cuneo fiscale.
In questi esercizi in cui convergono competenze tecniche, professionalità politica e consulenze dei sondaggisti, ogni giorno finisce per spuntar fuori una nuova soluzione. Ora è la volta della Service Tax, un’imposta-miraggio che ingloberebbe non solo il prelievo sulla casa varato dal governo Monti ma anche i tributi su illuminazione notturna, marciapiedi e raccolta dei rifiuti. Gli esponenti del governo che sostengono questa soluzione (al posto delle altre otto) ne sottolineano una presunta «razionalità» perché in un colpo solo accorperebbe più voci e concederebbe più spazio ai Comuni. Ovviamente la razionalità degli uomini di governo non è affatto detto che venga compresa dagli elettori italiani, i quali hanno in materia di tasse la memoria degli elefanti e ricordano come in passato ogni volta che ne è stata istituita una nuova il varo è avvenuto sotto il segno dell’illuminismo politico. Persino l’Irap, che oggi tutti riconoscono esser stata mal congegnata, quando nacque pretese di raccontare i suoi quarti di nobiltà. Insomma riuscire a neutralizzare i vantaggi propagandistici per Berlusconi varando nel contempo una «tassa buona» mi pare un esercizio da contorsionisti e mi permetto di dubitare del successo dell’intera operazione.
Anche perché se non ho capito male il governo con l’appoggio «morale» della Bce e della Banca d’Italia si è impegnato in un’operazione parallela che semplicisticamente potremmo definire così: «Scommettiamo sulla ripresa e invitiamo gli italiani a crederci». Gli economisti già in questi giorni hanno preso a spaccare il capello per sentenziare se veramente i segnali che stiamo intercettando preparano la ripresa e che tipo di ripartenza (debole) dobbiamo attenderci. Ma mi sento di dire che la scommessa del governo è giusta, è necessario che la riapertura delle fabbriche sia accompagnata da una robusta iniezione di antropologia positiva. Il «fare» non deve essere solo un decreto ma un movimento. Come fanno però a stare insieme l’operazione «vedo la ripresa» con una comunicazione che poi alla fine parla prevalentemente di nuove tasse? Se si vogliono legittimamente cambiare le aspettative degli italiani bisogna avere il coraggio di delineare un’agenda «della ripresa». Presentarsi davanti agli imprenditori e i sindacati chiedendo loro uno sforzo senza precedenti, mobilitare le ambasciate (comprese le feluche che si vergognano a vendere il formaggio!) per una grande campagna del made in Italy, accompagnare l’apertura delle scuole con uno scatto d’orgoglio. Insomma se la forza della pressione di Berlusconi sull’Imu sta nei sondaggi (ovvero nelle opinioni degli elettori) è su quel terreno che bisogna seminare.
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