by Sergio Segio | 10 Agosto 2013 7:50
SE CI fosse ancora Mark Twain, potrebbe spiegare meglio di tutti cosa sta accadendo al governo sul fronte dell’innovazione. Citando la famosa battuta delle scrittore americano: “Le notizie sulla morte del fax sono largamente esagerate”. Infatti. Il fax è vivo e lotta insieme a noi. O meglio, a loro. I burocrati. Quelli del “mi mandi un fax” così poi lo impilo per bene fra le Pratiche Inevase e non se ne parla più.
ALLA faccia della produttività, della efficienza, dei risparmi di tempo e denaro che potrebbe garantire l’email. Alla faccia nostra. Sarà così almeno fino al gennaio 2015. Ma come? Il decreto del Fare non ha appena stabilito il contrario dopo una surreale battaglia di alcuni temerari esponenti del partito democratico “contro” il loro governo? Appunto, ma le vie della conservazione sono infinite. In effetti l’articolo 14 del decreto 69 del 2013 adesso parla proprio di abolizione del fax. Ma l’altro ieri, poche ore prima di chiudere per la pausa estiva, la Camera ha approvato un ordine del giorno memorabile. Non è un esagerazione. Sentite il ragionamento: «Considerato che vi sono situazioni e settori anche nella pubblica amministrazione in cui non sempre l’uso esclusivo degli strumenti informatici corrisponde alla massima efficienza, ma anzi l’uso di strumentazioni alternative quali quelle del fax si rivelano necessari se non essenziali… »
. Insomma considerato tutto ciò, la Camera impegna il governo (e qui si fatica a leggere perché nella fretta i promotori hanno scritto a mano, probabilmente, visto il contesto, con una penna d’oca), «impegna il governo a valutare gli effetti applicativi dell’articolo 14 al fine di adottare iniziative normative volte a graduare il divieto di utilizzo del fax a decorrere dal gennaio 2015».
Va aggiunto che il divieto del fax è già previsto dal Codice della amministrazione digitale del 2005: più graduale di così c’è solo il ritorno alle tavolette di argilla dei sumeri probabilmente. Il fatto serio è che la battaglia del fax sembra riflettere l’atteggiamento prudente, diciamo così, del governo sui temi della innovazione. Non è che siano contrari, anzi: del resto sono quasi tutti ministri giovani, connessi, spesso presenti su Twitter. Come potrebbero essere contrari al digitale? Diciamo però che non mostrano tutta questa voglia di cambiare. Che fretta c’è? Del resto sembra la perfetta rappresentazione del pensatoio che Enrico Letta ha per anni riunito a fine agosto in Trentino, in un paesino di nome Drò: si chiamava VeDrò, che non è un no, anzi. E non è nemmeno un “sopire, troncare” di democristiana memoria. È un sì, proviamoci, ma non subito. Con calma.
Con juicio, avrebbe scritto Manzoni. Insomma, vedrò…
Il caso più clamoroso è quello dei libri scolastici digitali. Sono previsti dal 2009: c’era la Gelmini ministro, un’altra era. «Tutti i libri saranno digitali» dissero allora. Basta zaini pesantissimi e basta salassi annuali per le famiglie, le motivazioni. Che sono rimaste lì intatte, perché ogni anno il
libro digitale è slittato all’anno successivo su richiesta degli editori che vedono il fatturato andare in fumo. L’ultima data fissata era il 2014. Ma il nuovo ministro Maria Chiara Carrozza ritiene che sia ancora troppo presto: non siamo pronti, insomma pensiamoci meglio. E agli editori qualche settimana fa lo ha detto chiaramente: prima del 2015 non se ne parla, state tranquilli. In realtà molte centinaia di scuole sono già passate agli ebook. Uno dei progetti più noti si chiama Book in Progress, è stato lanciato dal Majorana di Brindisi nel 2009: i libri digitali sono scritti dagli stessi docenti, i ragazzi fanno lezione col tablet e in classe c’è la banda larga. Un modello di innovazione dal basso. E allora? Qualche giorno fa il ministro a un convegno ha incontrato il preside del Majorana Salvatore Giuliano. Il ministro: «Lei è una fuga in avanti». Il preside: «Vorrei vedere nei paraggi l’auto ammiraglia ma francamente non la vedo». Ognuno per la sua strada.
Il problema è che la regia di questi temi è affidata ad un triangolo che non è ingeneroso paragonare alle Bermude. Al primo angolo c’è Agostino Ragosa, già responsabile innovazione delle Poste, nominato dal governo Monti a capo della nascente Agenzia Digitale che a distanza di nove mesi non è ancora nata perché lo statuto è stato bocciato dalla Corte dei Conti e così Ragosa lavora in incognito e si fa fotografare per Twitter mentre lavora al nostro futuro digitale sepolto da una montagna di carta. Al secondo angolo dal 16 giugno c’è Francesco Caio, top manager che Enrico Letta con un tweet ha nominato mister Agenda Digitale. In realtà non è chiaro se al tweet è poi seguito il decreto di nomina o no ma Caio, nonostante sia ancora alla guida di una multinazionale del calibro di Avio, lavora a testa bassa per cercare di far accadere qualcosa. Cosa? Vedremo. Al terzo angolo fino a ieri c’era il capo del dipartimento comunicazioni del ministero della Sviluppo Economico. Il responsabile dalla banda larga, Roberto Sambuco. Fino a ieri perché nella ristrutturazione agostana del ministro Zanonato i dipartimenti sono stati cancellati, quelli sì davvero, mica come i fax.
E così in questo caos organizzato succede che il governo riesca finalmente a liberalizzare il wifi, ma contestualmente il Parlamento levi 20 milioni di euro destinati a portare Internet agli italiani che ancora non si possono connettere. Venti milioni possono sembrare poca cosa ma sono risorse levate ad Internet per darle alle tv locali, che non sono tutte aste di pentole e argenteria ma poco ci manca: «Altrimenti avrebbero chiuso» ha motivato il vice ministro Catricalà promettendo di restituire i venti milioni alla prima occasione utile, la legge di stabilità. Vedremo, anzi vedrò.
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