Il Cavaliere e il «segnale» sulla giustizia: se non arriva la reazione sarà dura

by Sergio Segio | 10 Agosto 2013 6:54

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ROMA — «Qualche giorno prima di morire, Giulio Andreotti mi ha detto che dovevo aspettarmelo. “Dovevi aspettartelo”, mi ha ripetuto, “che avrebbero provato ad ammazzarti, e non solo nell’immagine”».
Nel fortino di Arcore, dove accedono ormai solo familiari e amici più stretti, Silvio Berlusconi l’aveva raccontata più volte, negli ultimi giorni, la storia dell’ultima telefonata col «Divo». Ma quando ieri questo aneddoto è stato affidato anche ai pochi fedelissimi che sono riusciti a parlarci al telefono, il Cavaliere l’ha fatto seguire da un’indicazione che ha lasciato di sasso gli interlocutori: «Proprio per questo motivo Marina non scenderà in campo. Io non sono d’accordo. Perché sono convinto che lo stesso trattamento che la magistratura ha riservato a me verrebbe riservato anche a mia figlia».
Dicono che sono i giorni più duri, quelli del ritorno ad Arcore. I giorni dell’attesa di quel «segnale» dal Quirinale. I giorni in cui Berlusconi si sente ripetere dai falchi, a cominciare da Denis Verdini, che «quel segnale non arriverà, per cui è meglio se facciamo cadere il governo ad agosto e ci prepariamo il voto a ottobre», anche per la storia dei margini interpretativi della legge Severino che «consentirebbero a te, Silvio, di correre come candidato premier». Il Cavaliere, in perenne oscillazione tra lo sconforto umano e la voglia di reagire, conserva ancora qualche flebile speranza sull’ipotesi che «le istituzioni» — leggasi, il Quirinale — gli restituiscano quell’«agibilità politica» che sta per perdere dopo la condanna in Cassazione. Se così non fosse, le subordinate che avrebbe dettato ai suoi sono racchiuse in due formule. «Reazione compatta» e «contrapposizione dura».
«È in corso un attentato alla democrazia da parte di chi vuole riscrivere l’articolo 1 della Costituzione affidando la sovranità alla magistratura», è il senso della premessa berlusconiana, di cui aveva già parlato durante la manifestazione di domenica scorsa a Palazzo Grazioli. Una premessa a cui il Cavaliere, parlando nelle ultime ore coi suoi, avrebbe fatto seguire un vero e proprio piano di azione: «Noi non faremo cadere il governo e non faremo dimettere i nostri parlamentari soltanto se questo attacco alla democrazia sarà fermato». Altrimenti, è il sottotesto, da Arcore partirà un’autentica campagna politico-mediatica su magistratura e giustizia. «Io», è l’indicazione su cui l’ex premier starebbe ragionando, «andrò tutti i giorni in televisione» per fare un’operazione verità su questo «attacco alla democrazia». E lo stesso — è il senso del suo ragionamento — faranno sul territorio «i nostri duecento deputati». Perché il Paese, in questo momento, è «sotto attacco».
Senza quel «segnale» dal Colle, insomma, agli occhi di Berlusconi è praticamente impossibile che il governo di Enrico Letta riesca a sopravvivere. E l’unica «concessione» che Berlusconi farebbe al Quirinale in caso di resa dei conti, come il diretto interessato ha spiegato anche a Verdini, riguarda la legge elettorale. Lo stesso Cavaliere, infatti, avrebbe più volte fatto riferimento alla «necessità» di cambiare il Porcellum prima di tornare alle urne. Ma sulla fine anticipata della legislatura, su quella no, non ci sarebbe alcuno sconto.
L’«uomo» sarà anche ferito. Ma il «politico» Berlusconi è ancora pronto a lottare. Come dimostra anche l’attacco sferrato ieri al governo sulla relazione del ministero dell’Economia contro l’abolizione dell’Imu sulla prima casa. Ai ministri del Pdl, nelle ultime quarantott’ore, il Cavaliere s’è premurato persino di lanciare qualche piccolissimo segnale rassicurante. Della serie, «il governo può andare avanti». Ma soltanto, è la precondizione, se rispetta «gli accordi presi». E sulla tassa sulla casa, così come sulla decisione di non aumentare l’Iva, non si discute. Perché quelli, per l’ex presidente del Consiglio, erano e rimangono punti non negoziabili. E lui, come riferiscono nella sua cerchia ristretta, «non ha alcuna intenzione di perdere né la faccia né tantomeno il consenso».
Già, il consenso. Il famoso scrittoio di Arcore è praticamente sommerso dai sondaggi che Berlusconi continua a commissionare. Sondaggi che lo portano ancora a dire che, ad oggi, «il Pdl è il primo partito», con un margine di tre punti percentuali rispetto al Pd. Dati e numeri su cui il Cavaliere riflette e continuerà a riflettere anche nelle prossime settimane, visto che le vacanze in Sardegna sono state annullate.
Ma non ci sono solo l’«uomo» e il «politico». C’è anche il «condannato» che, di fronte a una sentenza che ritiene marchiata da un «attacco alla democrazia», non ha smesso di trovare vie d’uscita. Non c’è momento della giornata, infatti, in cui Berlusconi non ripeta di non essere «un evasore» ma «la parte lesa». Non c’è telefonata in cui non rivendichi, quasi fosse l’arringa della difesa, che «all’epoca ero presidente del Consiglio, neanche telefonavo in azienda». Non c’è chiacchierata in cui non giuri che i calcoli della «presunta evasione» sono lontani dai 360 milioni di euro di cui molti scrivono. «L’evasione reale sarebbe di 7,3 milioni. E, secondo voi, visto che quell’anno ho fatto beneficienza per venti milioni, per quella cifra di 7,3 milioni avrei messo in gioco tutto, a cominciare dalla presidenza del Consiglio?».
Ma gli interlocutori con cui si sfoga, siano essi «falchi» o «colombe», su questo sono d’accordo con lui. Sono altri quelli che Berlusconi deve convincere della sua teoria sull’attacco finale che la magistratura avrebbe sferrato contro di lui. Ripetere la cronistoria dei suoi processi in cui Magistratura democratica era maggioranza nei collegi giudicanti, ipotizzare «la vendetta» del giudice Esposito per quella storia del fratello rimosso dal Pdl dall’incarico di «garante dell’esecuzione delle prescrizioni per l’Ilva di Taranto», tutto questo, ormai, forse serve a poco. Per questo il Cavaliere potrebbe sfruttare lo scivolone in cui il magistrato è incappato con l’intervista al Mattino per chiedere la revisione del processo. Sempre che non arrivi prima quel «segnale» sull’«agibilità politica» che nel fortino di Arcore, nonostante nessuno voglia ammetterlo, sembra sempre più un miraggio. Ogni giorno di più.
Tommaso Labate

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