Socialismo democratico o no? Se ne può discutere

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Beidaihe, nota località balneare cinese nella regione dell’Hebei, a un tiro di schioppo da Pechino, rappresenta in modo efficace il tradizionalismo e la capacità di cambiare muta del Partito comunista cinese. L’incontro estivo dei leader politici nazionali ha origini lontane, perché furono proprio i padri della rivoluzione comunista a dare vita all’usanza dell’incontro agostano a Beidaihe. Allo stesso tempo, da allora, sono cambiati e non di poco, i temi di discussione, nel corso della burrascosa e a tratti esaltante vita della Repubblica Popolare.
Quest’anno si tratta del primo incontro presieduto dal nuovo capo del Partito Xi Jinping e gli argomenti saranno principalmente economici, secondo i bene informati; i temi politici però aleggiano sull’incontro a seguito principalmente di due eventi: l’imminente processo a Bo Xilai, che pare abbia raggiunto un accordo con i vertici del Partito e salvo colpi di testa ammetterà le proprie colpe in un processo rapido e senza sorprese, e una discussione nata da un dibattito politico piuttosto acceso tra magazine e quotidiani del Partito. La rivista della Scuola di Partito, Study Times, ha infatti pubblicato un editoriale nel quale sottolineava come dopo il 18mo congresso del novembre scorso, ci si aspettasse un’accelerazione di riforme puramente politiche, in nome di un socialismo democratico capace di rappresentare al meglio le istanze costituzionali. Da sempre la rivista viene vista come la rappresentazione e il megafono della sponda liberal del Partito Comunista. A Study Times ha risposto in modo perentorio il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del Partito Comunista e considerato la roccaforte dei conservatori: «Il costituzionalismo sotto la maschera del socialismo democratico è più pericoloso del capitalismo in quanto è stato progettato per sovvertire il socialismo in tutto il mondo». Anzi, secondo il Quotidiano del Popolo, «dall’inizio della guerra fredda, le agenzie di intelligence Usa hanno utilizzato il socialismo democratico, come potente arma ideologica contro il totalitarismo».
Al di là del botta e risposta questo dibattito dice qualcosa che spesso in Occidente è ignorato: in Cina si discute, c’è un confronto che spesso – specie negli ambienti più accademici – mira anche a superare le specificità cinesi. In particolare, come già segnalato su queste pagine, il dibattito verte sulla Costituzione e la sua forza e capacità di raccogliere i cambiamenti sociali del paese.
Processi che trovano al momento una loro riflessione da parte dei leader, nell’ambito delle ricette economiche. Per la prima volta dal 1990 l’economia cinese crescerà «solo» del 7,5%. Alcuni istituti e banche hanno provato a immaginare scenari anche peggiori, con la Cina in preda al cosiddetto hard landing, ovvero un risveglio dalla crisi molto simile a un incubo. Da Pechino tranquillizzano i mercati internazionali e a Beidaihe questo rallentamento cercherà di diventare il tentativo di immaginare le riforme economiche capaci di riequilibrare la società cinese – preda di clamorose diseguaglianze – e provare a convertire la quantità in qualità, magari dispensando importanti direttive alle periferie del potere cinese, da sempre capace di sperperare denaro e investimenti (tanto che da qualche mese il debito pubblico delle amministrazioni locali è diventato uno dei problemi principali della leadership).
Le linee guida sono quelle della già nota «Likonomics», nel tentativo di effettuare riforme strutturali; in particolare si cercherà di aumentare l’ingresso dei privati nei settori considerati da sempre territorio statale, anche se al riguardo non mancheranno resistenze. Come sottolineavano i media cinesi in questi giorni, «le cosiddette 36 clausole, uscite nel 2005, avevano incoraggiato gli investitori privati a inserirsi in alcuni settori in gran parte controllati dallo Stato, come i trasporti, l’energia, le telecomunicazioni, la finanza, i servizi medici e l’istruzione». Questo processo di liberalizzazione però pare sia stato troppo lento, o almeno così ritiene anche il Fondo Monetario Internazionale che da tempo suggerisce nuove liberalizzazioni a Pechino. Così il governo ha rilasciato un’altra linea guida nel 2010, «le nuove 36 clausole», nel tentativo di rinnovare tale spinta che nel 2013 verrà ancora potenziata.


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