La ricchezza è partecipazione
In un momento in cui l’Occidente si trova alle prese con la crisi economica più grave del dopoguerra. In un momento in cui anche la crisi della rappresentanza politica raggiunge livelli elevatissimi. In un momento in cui stati tradizionalmente appartenenti a quello che si definiva il Primo mondo rischiano il default. Insomma nell’attuale situazione scrivere e pubblicare un libro intitolato Perché le nazioni falliscono, rappresenta senza dubbio una sfida quanto meno ambiziosa, se non una raffinatissima operazione di marketing. E proprio questo hanno fatto due studiosi che lavorano in due prestigiosissime università americane, ovvero Daron Acemoglu, professore di Economia al Mit di Boston e James A. Robinson, che si occupa di Scienze politiche ad Harvard. Il loro saggio, ampio e dettagliato, intitolato appunto Perché le nazioni falliscono. Alle origini di prosperità, potenza e povertà (pp. 527, euro 22) è uscito di recente per Il Saggiatore e dovrebbe rappresentare, secondo quanto scritto in quarta di copertina, riprendendo un giudizio di «Repubblica», «una bibbia per le nostre classi dirigenti». E, in effetti, qualche appartenente alla classe dirigente nostrana, come Fabrizio Barca, ha già seguito il consiglio, dato che richiama il concetto di istituzioni estrattive, fondamentale nel discorso di Acemoglu e Robinson, all’interno del suo documento per la rifondazione del Pd reso pubblico nel momento del travaglio del maggior partito del centrosinistra nel definire la linea di condotta, sfociata poi nel governo di larghe intese, approvato per evitare, guarda caso, il rischio di default per il nostro paese.
Il primato del Politico
Al di là di questo, occorre innanzi tutto dire che il saggio dei due studiosi del Mit e di Harvard, nell’affrontare la questione fondamentale dei motivi per cui alcuni stati prosperano mentre altri si impoveriscono, introduce una teoria chiara, lineare e soprattutto brillante nelle sue articolazioni. Si parte sottolineando come «le istituzioni economiche siano cruciali per determinare la povertà o la prosperità di un paese, e come, al contempo, la qualità delle istituzioni economiche dipenda dalla politica e dalle istituzioni politiche». Si afferma subito, insomma, e con forza, la centralità della politica rispetto all’economia, ridefinendo il concetto di economia politica in modo diverso, quasi opposto, rispetto alla concezione tradizionale e in particolare rispetto al complesso rapporto tra struttura e sovrastruttura di stampo marxiano. Da notare comunque che in questa maniera si abbandona la visione quasi sacrale dell’economia come tecnica pura attualmente ancora in auge, sottomettendola al primato della politica.
A questo punto si passa a definire quali siano le istituzioni poltiche in grado di garantire la prosperità di uno stato e quali invece quelle che portano al fallimento. Prima, però, gli autori confutano altre teorie che tentano di spiegare la diseguaglianza globale in maniera diversa dalla loro e negano quindi che la ricchezza di un paese possa dipendere da questioni d’ordine geografico, climatico, culturale o dall’ignoranza dei governanti. Il punto centrale per loro, il paradigma a cui richiamarsi è la differenza esistente tra istituzioni inclusive ed istituzioni estrattive. Le prime sono quelle che «permettono e incoraggiano la partecipazione della maggioranza delle persone ad attività economiche che sfruttino nel modo migliore i loro talenti e le loro abilità, permettendo agli individui di fare le scelte che desiderano». Devono in ultima analisi garantire «il rispetto della proprietà privata, un sistema giuridico imparziale e una quantità di servizi che offra a tutti uguale opportunità di accesso al sistema di scambi e contrattazioni; deve inoltre essere assicurata la possibilità di aprire nuove attività e, per le persone, di scegliere liberamente un’occupazione». Le seconde, invece, hanno caratteristiche opposte alle prime e si possono definire estrattive «dal momento che vengono usate da determinati gruppi sociali per appropriarsi del reddito e della ricchezza prodotti da altri».
Nella visione di Acemoglu e Robinson, affinché si sviluppino istituzioni economiche del primo tipo, è necessario che si affermi un sistema politico che distribuisca in modo più ampio il potere al’interno della società, evitando che cada nelle mani di gruppi ristretti. Insomma quanto più la politica – che rappresenta «il processo attraverso cui la società sceglie le proprie regole di governo – è di tipo pluralista, è cioè gestita da molteplici gruppi sociali, tanto più possono svilupparsi istituzioni inclusive. Accanto a questo carattere, il sistema politico deve anche presentare un sufficiente grado di centralizzazione, altrimenti ci troveremo in una situazione come quella somala dove il potere è distribuito tra i vari clan ma non ci sono istituzioni inclusive, quanto piuttosto il caos più totale.
I sistemi inclusivi garantiscono la prosperità della nazione perché sono soggetti e anzi favoriscono naturalmente quei processi di distruzione creatrice che rinnovando l’economia, la società , la cultura e la stessa politica consentono al paese di evolversi e arricchirsi. Quelli estrattivi, invece, in quanto basati sul parassitismo di pochi, sono evidentemente contrari e portati ad ostacolare ogni cambiamento che possa mettere in discussione lo status quo, ponendo in pericolo il potere costituito e i suoi detentori. È il conflitto politico che consente il cambiamento delle istituzioni ed è la storia, con i suoi momenti di congiuntura critica che fa emergere le differenze, all’inizio piccole, quasi insignificanti, ma poi via via più marcate, tra le nazioni. Così, ad esempio, la Glorious Revolution inglese, con l’affermarsi del potere del parlamento rispetto a quello del re, ha rappresentato il punto di svolta perché la Gran Bretagna iniziasse a dotarsi di istituzioni inclusive. Altri momenti fondamentali per lo sviluppo del mondo moderno e per l’acuirsi delle differenze tra i vari paesi sono stati la rivoluzione industriale, quella francese, i diversi modelli di colonizzazione affermatisi nell’America del Nord e del Sud e ancora l’emergere di Lula in Brasile e di Deng in Cina. Il libro, in effetti, è strutturato come un susseguirsi quasi ininterrotto di esempi storici volti ad illustrare le tesi di fondo degli autori. Esempi che si rivolgono ai periodi più diversi, dalla preistoria alla storia recente, e che prendono in esame segmenti di tempo di differenti lunghezze: così la caduta dell’Impero romano sarebbe dovuta a istituzioni estrattive già presenti ai tempi della repubblica, mentre la prosperità del Botswana dopo l’indipendenza del 1966 è legata a un viaggio a Londra di tre suoi capi nel 1895.
L’esclusione che non paga
Quello che però non convince proprio del saggio di Acemoglu e Robinson, al di là dell’uso troppo disinvolto degli esempi storici che a volte sembrano quasi «adattati» alle tesi che devono sostenere, e alla ripetitività quasi ossessiva delle idee fondamentali degli autori che vengono richiamate in continuazione appesentendo sensibilmente il testo, è proprio la visione complessiva messa in gioco. Se infatti è innegabile che sono preferibili comunque istituzioni inclusive ad istituzioni estrattive, sono soltanto queste ultime e le classi dirigenti che le hanno imposte ad essere le uniche responsabili della povertà di un paese, mentre le nazioni con istituzioni inclusive non ne hanno alcuna responsabilità? Insomma, senza volersi richiamare alle teorie dell’imperialismo di Lenin o di Rosa Luxembourg, non è che è proprio la ricchezza di alcune nazioni a fondarsi sull’arretratezza e la miseria di altre? Non è che la responsabilità vada cercata proprio nel sistema politico, sociale ed economico basato sullo sfruttamento? O in quel regime di accumulazione per espropriazione della ricchezza che caratterizza la globalizzazione neoliberista, come ha osservato il geografo marxista David Harvey? Quali sono inoltre i limiti entro i quali si può parlare di sistema inclusivo, qual è cioè il livello minimo di condivisione del potere per cui il sistema è inclusivo, e quale quello massimo? Tutta la popolazione, ad esempio, o solo i rappresentanti dei vari gruppi? E le istituzioni democratiche e liberali odierne bastano a garantire una reale inclusione o stanno vivendo una profonda crisi che le rende sempre più estrattive?
Insomma, pur presentando spunti interessanti e condivisibili, come l’accento posto sulla centralità del conflitto politico e sulla categoria di inclusione, Perché le nazioni falliscono sembra essere, in ultima analisi, un’ulteriore esaltazione del mondo così com’è, e in particolare del primato dell’Occidente – qui segnatamente degli Stati Uniti e della Gran Bretagna – da imitare e perseguire se si vuole raggiungere la prosperità. E pare avvicinarsi di molto, fatte le dovute proporzioni dal punto di vista di approfondimento intellettuale, ai tanti testi sulla fine della storia e sulla magnifiche sorti e progressive che ci attendevano, fiorite all’alba dell’affermazione della globalizzazione neoliberista, dopo la caduta dell’impero del male sovietico.
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