«Lo stato ha avuto un ruolo determinante negli assassinii selettivi e nelle sparizioni forzate»

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BOGOTÀ. Martha Nubia Bello è Professoressa dell’Universidad Nacional de Colombia. Esperta di conflitto colombiano, è stata chiamata da Gonzalo Sanchez, il direttore del Centro Nacional de Memoria Histórica (Cmh) a coordinare il lavoro del rapporto Basta Ya.
Questo rapporto sistematizza il lavoro svolto con i 24 volumi precedenti, ciascuno su un caso emblematico. La decisione di partire con i casi eclatanti è criticabile quando si vuole dare una dimensione completa del conflitto, che precauzioni avete adottato?
Abbiamo integrato con fonti secondarie sia di tipo ufficiale, sia di tipo giornalistico per completare l’informazione quantitativa.
Nel rapporto citate una testimonianza sul massacro di Segovia (municipio nel Nordest della regione Antioquia). Un testimone si lamenta del fatto che tutti datino il massacro al 1988, mentre egli ricorda che se si considerano le uccisioni selettive il vero massacro è quello del 1997. Non c’è un rischio di sottostimare il conflitto?
Attenzione, noi in realtà non pretendiamo dare numeri conclusivi. La stessa cifra di 220.000 è quanto si è documentato a partire dalle fonti ufficiali e giornalistiche, ma non è esaustivo. Lo abbiamo verificato con il lavoro di campo: andando a documentare un massacro, le testimonianze riferivano di altri episodi mai registrati dalle fonti. Il punto è che anche così i numeri sono scandalosi.
Il focus sulla memoria delle vittime ha una forza evocativa, ma è criticabile perché molte volte manca la forza di parlare, manca la razionalizzazione da parte loro di quanto è avvenuto. Non vi è sembrato rischioso?
Per noi le vittime sono un complemento della riscostruzione, anche se sappiamo che a volte è difficile chiarire aspetti della vicenda perché le vittime stesse ignorano interessi e strategie degli attori. Dalla lettura del rapporto, risulta chiaro che abbiamo fatto un lavoro di integrazione su fonti giudiziarie. Anche perché noi non siamo una Commissione della Verità, quindi non potevamo fare imputazioni. Soprattutto, però, la voce delle vittime aveva un valore etico e uno politico. Non si poteva scrivere un rapporto come questo lasciando almargine le voci delle vittime.
Voi siete una commissione indipendente di esperti, ma il Cmh è chiaramente un ente politico ufficiale, e il vostro rapporto esce nel bel mezzo dei Dialoghi di pace a Cuba. Non avete sentito una pressione per l’attualità politica?
Noi abbiamo condotto il lavoro in autonomia sia accademica sia amministrativa. La pressione vera che sentiamo è di carattere etico e personale, nel fare di tutto perché questo rapporto non sia usato per giustificare soluzioni militari o di continuazione della guerra, ma piuttosto per trovare una prospettiva di uscita negoziata dal conflitto.
Perché il 1958?
Sappiamo bene che la violenza colombiana inizia prima, ma la Violencia del 1948-1958 è stata abbastanza studiata, inoltre mancavano fonti quantitative e infine aveva senso partire dagli anni Sessanta perché lì è nata la guerrilla campesina, visto che il mandato chiedeva esplicitamente l’origine del gruppi armati illegali.
Voi identificate quattro momenti del conflitto, con intensità variabili di violenza. È possibile parlare di matrice comune del conflitto?
Si tratta di un periodo così lungo e con differenze regionali così grandi che quello che vogliamo mostrare è che tutti gli attori armati si sono trasformati con il trascorrere del tempo. Contemporaneamente ci sono elementi di continuità.
Tra questi elementi comuni, sottolineate la dimensione agraria, che non a caso è il primo punto della negoziazione all’Avana. Tuttavia non rischiate di minimizzare l’elemento urbano?
Tutti concordiamo che esiste una dimensione urbana del conflitto legata a alcune organizzazioni in particolare, ma siamo anche convinti che sia marginale. Quantitativamente il conflitto armato colombiano è un conflitto agrario. Nel momento in cui si intreccia per esempio con il narcotraffico, non è facile scindere cosa appartenga al conflitto armato e cosa a altre forme di violenza, ma il primo è e continua a essere un conflitto legato al tema della terra.
Quali sono le determinanti del desplazamiento forzado?
Al di là della centralità del tema agrario, c’è quelle che chiamiamo la precarietà democratica. Nel discorso di fondazione di alcune organizzazioni l’assenza di spazio di partecipazione politica è uno degli argomenti più forti. A una forte richiesta di partecipazione c’è la risposta violenta. Fino a quando persista, il deficit di democrazia sarà addotto come giustificazione affinché la violenza politica continui. Per esempio, la costituzione del 1991 è molto avanzata eppure non solo non cambia, ma segna l’inizio della fase più cruenta del conflitto. Per due ragioni: resistenza delle élite locali a cedere il potere, e la congiuntura in cui il narcotraffico fu capace di permeare e corrompere strutture di potere.
Nel parlare della relazione con la popolazione civile si opera una distinzione tra radicamento endogeno e radicamento instabile, a cosa sono dovuti?
Il primo si dà quando la presenza dei gruppi armati avviene sin dall’inizio, il secondo quando occorre un temporaneo sfruttamento di qualche fattore economico.
La seconda è chiara, ma la prima? La responsabilità è dell’assenza dello Stato?
Sicuramente. È vincolato al processo di colonizzazione interna, all’occupazione di terre da parte di chi era stato espulso dalle zone di origine, per assenza di terra o persecuzione politica in alcuni casi.
Analiticamente qual è il ruolo dello Stato?
Quantitativamente abbiamo caratterizzato ciascun attore armato per il ruolo fondamentaleche ha avuto in ciascuno delle 14 forme di violenza documentate. Lo Stato ha avuto un ruolo cruciale negli assassinii selettivi e nella desaparición forzada. Attraverso la memoria si può vedere anche l’accusa molto forte che fanno le vittime in termini di complicità.
Pensa che il suo ruolo sia dovuto all’assenza d’istituzioni forti o che ci sia stato un piano strategico?
Dipende del periodo storico e della regione. Molta della violenza si spiega per l’assenza dello Stato, ma c’è un elemento legato a una distorsione. Lo Stato nella sua dimensione locale e regionale non rappresenta quanto si definisce a livello nazionale, si comporta secondo logiche differenti, come a volte l’uso delle istituzioni in funzione di interessi privati.
Nella sua introduzione dice testualmente che sul tema della giustizia transitoria la Colombia non apprende. Sa bene che il tema è oggetto di un conflitto interno al potere giudiziario e rimane al centro dei Dialoghi di Pace. Come dobbiamo interpretare questa frase? È un messaggio rivolto a chi?
Di regimi transitori e di esperienze ne abbiamo avute parecchie. Il conflitto colombiano è ricco di tentativi di affrontare il conflitto per via giudiziaria. Non tutte le esperienze sono state negative. È importante che queste lezioni siano studiate.
Pensa che sia necessaria una qualche forma di giustizia transitoria oppure che sia possibile siglare un accordo senza di essa?
È assolutamente imprescindibile. Serve una giustizia di carattere politico, una di carattere etico, e una penale. Tuttavia è materialmente impossibile che si giudichi ogni delitto commesso.


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