L’AGIBILITÀ AD PERSONAM

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È come se dicesse: nel nostro Paese non c’è democrazia, non è permesso a tutti e a tutti i partiti di svolgere la propria attività. È come se rimproverasse la classe dirigente attuale, il governo, le massime istituzioni di muoversi lungo un percorso antidemocratico. È questa la situazione che si vive in Italia?
No, non è e non può essere questa. A parte una evidente contraddizione, visto che l’attuale esecutivo è sostenuto da una maggioranza di cui fa parte anche il Popolo delle libertà, la condanna di Silvio Berlusconi non ha nulla a che vedere con la tenuta del nostro sistema né con l’agibilità politica di un leader che ha personalmente guidato il Paese per una decina degli ultimi 19 anni e che nello stesso periodo ha influenzato la vita complessiva del paese, sul piano politico e culturale, in maniera determinante.
La pena a quattro anni di reclusione (solo un anno da scontare perché gli altri tre sono stati cancellati da un indulto) è il frutto di un processo penale svoltosi regolarmente nei tre gradi di giudizio. Lo ha confermato la Corte di Cassazione che lo stesso ex presidente del Consiglio aveva definito il «mio giudice a Berlino ». Un processo provocato da un reato e non da un’opinione. Da un illecito e non da una posizione politica. Il Cavaliere non è stato condannato per la sua attività in Forza Italia prima e nel Pdl poi. Non è stato giudicato in quanto leader di partito. Il concetto dell’agibilità politica, sollevato in questo modo, è dunque a dir poco inappropriato. I suoi sostenitori adesso lamentano il fatto che senza Berlusconi viene a mancare la competizione politica, viene eliminato il futuro avversario del centrosinistra. In un sistema democratico, la leale e corretta sfida elettorale deve essere ovviamente garantita. Ma il caso non è questo. I magistrati non dovrebbero applicare la legge? O il Parlamento dovrebbe immaginare una corsia preferenziale?
Una risposta affermativa comporterebbe l’accettazione di analisi, queste sì azzardate, secondo cui il leader del centrodestra può fregiarsi di un
status giuridico eccezionale. E questo solo in quanto leader del centrodestra. Come direbbe il filosofo Carl Schmitt si dovrebbe dar vita ad uno “Stato d’eccezione” in cui legalità e legittimità sono separate, in cui lo Stato di diritto per come lo abbiamo conosciuto dal 1948 ad oggi viene sospeso. La deriva suggerita dagli esponenti berlusconiani, infatti, è proprio questa. Prevedere una soluzione eccezionale, solo per Berlusconi. Inserire la condanna in una sorta di “sospensione politica” che gli consenta, in un modo o nell’altro, di continuare ad essere senatore, proseguire nella sua leadership partitica e ritentare — quando si ripresenterà l’occasione — la candidatura alla guida del governo e a un seggio in Parlamento. C’è una implicita pretesa di non essere equiparati a tutti gli altri cittadini, c’è la volontà di non accettare l’esito di un processo. Fino a venti anni fa esisteva un istituto, quello della immunità parlamentare, che metteva al riparo deputati e senatori dalle inchieste. Ma tutti erano al riparo e non solo uno. E poi dalle inchieste e non dalle condanne in via definitiva.
Rivolgersi allora al presidente della Repubblica per reclamare una specie di salvacondotto significa trascinare Napolitano in una impropria trattativa. Non a caso il capo dello Stato ha usato una massiccia dose di prudenza nel colloquio con i capigruppo del Pdl. Sa che farsi incastrare in un negoziato di questa natura comporta rischi che non si possono correre. Il Quirinale non può essere impegnato in questo patteggiamento. Può forse comprendere la condizione di umana difficoltà vissuta, ma non può certo scendere a patti sui principi costituzionali. Per questo è immotivata la delusione che ieri ha avvinghiato lo stato maggiore del centrodestra dopo l’incontro sul Colle.
Irragionevole anche nelle conseguenze. Gli ambasciatori dell’ex premier sembrano infatti voler scaricare sul governo e sul Quirinale il peso della loro richiesta. La vita dell’esecutivo non è più valutata per i provvedimenti che approva o per le leggi che vara, ma solo per la capacità di assegnare al Cavaliere uno status giuridico ad personam.
In questo contesto, dunque, viene meno anche il motivo per cui è stato condannato. Non si discute più dei reati commessi. La frode fiscale viene infilata in una sorta di tritatutto che sbriciola la sentenza. E poi la avvolge nel mantello della sovranità popolare. Ossia nel consenso che Berlusconi ha ricevuto in questi anni e che ha conservato in parte anche alle ultime elezioni. Come se gli otto milioni di voti ricevuti a febbraio fossero un grande lavacro, una amnistia di fatto. Ma la sovranità popolare impone responsabilità e non concede wild card per l’irresponsabilità.


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