Così il regime kazako processa il dissenso

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ASTANA. LA SCIAGURATA deportazione di Alma Shalabayeva e bambina ha messo in moto una valanga finora rovinosa per gli oppositori del regime di Nursultan Nazarbayev. L’estradizione decretata in Spagna per un’ex guardia del corpo di Mukhtar Ablyazov, la cattura di Ablyazov stesso in Francia, il bucato di una storia piuttosto nera dentro una tintoria giallorosa (cherchez la femme, e che sia bionda e slava, e tutti contenti).
Ieri un’altra, importante puntata si è aperta e frettolosamente richiusa sopra il destino del più famoso prigioniero politico del Kazakhstan, Vladimir Kozlov. È successo nella Corte equivalente alla nostra Cassazione, nella capitale Astana. Si giudicava il ricorso della difesa di Kozlov, 53 anni, condannato a 7 anni e mezzo per istigazione all’odio e alla violenza nel corso della lotta degli operai del petrolio nel sud del Paese, che durò per sette mesi nel 2011, passò attraverso il licenziamento in tronco di 2.000 lavoratori, e culminò nel dicembre in una sparatoria poliziesca che fece 17 vittime fra i manifestanti secondo le fonti ufficiali (molti di più secondo l’opposizione).
C’erano parlamentari polacchi e italiani — i cinque deputati del Movimento 5 Stelle che hanno svolto un’efficace informazione negli scorsi giorni — e osservatori europei, oltre a un piccolo gruppo di amici del condannato. Hanno sollevato proteste la mancata traduzione, in udienza, degli interventi del Presidente e dell’Accusa, pronunciati in kazako, e la pessima traduzione dell’arringa dell’avvocata per la difesa.
Già negli altri gradi Kozlov, che è cittadino russo del Kazakhstan
e ignora il kazako, aveva lamentato la mancata traduzione di parti del processo. La brusca attenzione sollevata sulla condizione dello Stato di diritto in Kazakhstan, a partire dal disastro romano, aveva fatto sperare in un aggiustamento del tiro del tribunale, del tutto deluso.
Alja, la giovane moglie (incinta) di Kozlov ha annunciato di voler proseguire la propria battaglia presso la giustizia europea. È molto combattiva, e lo è suo marito, come mostrano le lunghe e belle lettere che le invia dal carcere, e che lei pubblica in parte.
Era abbastanza inevitabile che gli sviluppi kazaki, e l’agosto delle vacanze e del Berlusconi interdetto (e del paradosso di una Russia che diventa generosa di asilo politico a un rifugiato americano…) facessero impallidire lo scandalo tutto italiano dell’affaire Shalabayeva. Che resta però tale, e non è certo attenuato da vicende private che riguardano solo i loro protagonisti. Quel tristo affare ha una sola soluzione, se la signora Shalabayeva, come sostiene, la auspica: un movimento a ritroso che rimetta persone e cose al punto in cui furono rozzamente e illegalmente manomesse.
Una volta tornata a Roma, la signora e la sua bambina decideranno di andare dovunque preferiscano, ma l’offesa italiana sarà almeno in parte riparata, e la revoca dell’espulsione, decisa dal presidente Letta e voluta fortemente dal ministro Bonino, potrà diventare non solo simbolica. La condizione apparentemente irrealizzabile posta da fonti governative kazake (oltre a quelle, più ordinarie, di una richiesta dell’interessata e di un deposito cauzionale, a meno che lo si imponga spropositato), cioè che il governo italiano “garantisca” il rientro in Kazakhstan della signora quando lo richiedesse la giustizia locale, vienequicorrettae”spiegata”anch’essa nel senso del paradosso: cioè che il governo kazako intende proteggere i propri cittadini, e dunque chiede garanzie circa il fatto che Shalabayeva non venga perseguita penalmente in Italia. (Interpretazione alla quale le autorità kazake aggiungono una maliziosa battuta sulla differenza dal trattamento che il governo italiano ha tenuto nei confronti dei suoi marò in India…).
C’è anche un altro versante italiano — e generalmente internazionale — della questione, che riguarda il rapporto fra difesa dei diritti umani e associazione in affari col ricchissimo Kazakhstan. Riguarda l’Italia, che vede legati al presidente Nazarbayev personaggi diversissimi come Berlusconi — un amicone — e Prodi — un ascoltato consigliere — oltre all’Eni e a un buon numero di altre aziende.
In realtà, la questione kazaka, per chiamarla così, non si riduce a questo. Nazarbayev è un autocrate, ma è anche uno straordinario leader politico. La sua biografia scivola facilmente nell’agiografia, dalla nascita — da genitori nomadi e illetterati — fino alla carriera svolta con formidabile abilità dentro le maglie strette dell’Urss e del Pcus, e alla svolta dell’indipendenza, nel 1991, governata in modo da tenere a bada potenze di confine del calibro di Russia e Cina (e Iran, anche).
Il Kazakhstan ereditato da Nazarbayev era un enorme deposito nucleare, e avrebbe potuto lasciarsi tentare da una scelta nord-coreana: fece la scelta opposta, e usò lo smantellamento per bilanciare l’influenza di quei colossali vicini (per migliaia di km) con gli americani. Si improvvisò thatcheriano, convocò le multinazionali senza accontentarsi di riceverne delle mance paracoloniali, ma entrando in pieno nel gioco, intuendo tempestivamente l’enorme riserva di ricchezze custodita dal mare e dalla terra kazake (petrolio, gas, uranio, oro e così via).
Proclamò di amare la democrazia, ma di sapere che l’economia viene prima, e che riempire le tasche è più facile che cambiare mentalità di secoli di gregarismo zarista e sovietico. Oggi, quando è un leader prestigioso al cui tavolo, e alla cui tavola, siedono a gara gli ex primi ministri e ministri e amministratori delegati delle democrazie occidentali, Nazarbayev, a 73 anni, è ancora ritenuto come il garante decisivo della stabilità e della sicurezza di un paese enorme (quasi dieci volte l’Italia, con una popolazione di poco superiore ai 17 milioni), in una regione eurasiatica di peso strategico, e al crocevia di culture e nobili e ideologie giovani e aggressive.
Si fa pesare a suo favore la differenza dai turbolenti paesi dell’area — Kirghizistan, Uzbekistan, Tagikistan… — e l’eclettismo ideologico e soprattutto religioso. «In Kazakhstan non c’è mezza misura possibile — dice un alto esponente ortodosso — o l’Islam controlla lo Stato, o lo Stato controlla l’Islam». Questo, oltre alla ricchezza smisurata, fa la forza di Nazarbayev, la cui vicenda personale si guadagnerebbe un capitolo speciale dell’opuscolo sui principati di un Machiavelli globalista: ma ne fa anche la vulnerabilità. Perché, accanto a una sequela intimidatoria di successi e riconoscimenti (nel 2010 il Kazakhstan ebbe addirittura la presidenza dell’Osce, e il presidente affida al contratto con uno spregiudicato Tony Blair il suo desiderio del Nobel per la pace), Nazarbayev ha conosciuto soprattutto due grosse sconfitte, che incidono sul suggello decisivo di ogni personale parabola po-litica: la questione della successione. Una è la saga di guai di famiglia, romanzesca — se ne farebbe una serie alla Borgia — ma dopotutto difficilmente governabile: la rovina incombe su tutte le famiglie, benché su ciascuna a suo modo, dalle dinastie onnipotenti alle vicissitudini dei poveri in canna. L’altra è proprio quel conflitto di Zhanaozen 2011, e quello sì che andava governato. Tanto più da un leader come Nazarbayev, che vanta nel suo passato sei anni di gioventù trascorsi a lavorare come operaio di altoforno — dopo esser stato da ragazzo lettore di quel classico del realismo socialista: “Come fu temprato l’acciaio” — e altri anni, anche dopo la laurea in ingegneria metallurgica, da responsabile del lavoro industriale nella sua regione.
La repressione cieca che falcidiò i lavoratori a Zhanaozen nel dicembre 2011 si è cercata a poantiche steriori molte giustificazioni: una polizia di giovani inesperti e spaventati che persero il controllo di fronte alle presunte provocazioni dei manifestanti; le false rassicurazioni che i governanti locali avevano dato a Nazarbayev, che altrimenti sarebbe intervenuto a sventare quell’esito; le trame di agitatori pagati, da Ablyazov, in particolare. Vi furono in effetti destituzioni di responsabili locali (il sindaco fu rimosso e poi condannato a sette anni), una misura cui Nazarbayev ha fatto sistematicamente ricorso di fronte a fallimenti di programmi o tensioni sociali. (Machiavellica anche questa, e non solo: il cielo e i governatori sono lontani, lo zar è vicino).
Ma sono anche le spiegazioni invocate ogni volta che un potere infrangibile si trova davanti una ribellione fino a un momento prima impensata, e perde la testa, anche quando la usò, tanto tempo fa, per capire che cosa spinge la gente a lottare, fame e dignità. Il tempo passa, e ci si accomoda su un’altra idea della gente, quella che viene da risultati elettorali al 90 o al 95 per cento (per fortuna non li chiameremo più bulgari, ora che il parlamento bulgaro è assediato), quella che viene dalle famiglie che portano i bambini in cima alla favolosa torre Bayterek, a posare la manina dentro l’impronta dorata della mano destra di Nazarbayev, e formulare un desiderio. «È come stringere la mano del Presidente», dice incoraggiante la guida.
Così, fra l’accusa di violare sistematicamente i diritti umani e civili e perseguitare e calunniare il dissenso,el’apprezzamentoeconomicamente interessato e politicamente allarmato per il futuro, il Kazakhstan di Nazarbayev si muove su un crinale tagliente. Il futuro, cui tiene formidabilmente, è l’Expo 2017 (dicono i kazaki sornioni che verranno a Milano a vedere come si fa: vorrei spiare la faccia dei milanesi che vengano a vedere Astana, già oggi, a quindici anni dalla sua invenzione, una combinazione di Shangri-la e di Edenlandia, una città che avrebbe potuto progettare e realizzare Ludwig di Baviera, se fosse stato seduto su un mare di petrolio. Quanto a Wagner, Nazarbayev l’avrebbe regalato a sua figlia Dariga).
Ma il futuro dopo di lui è del tutto insicuro. E quello che appare ai facili commentatori stranieri come un difetto di fabbricazione dell’opposizione locale, il fatto che la gran parte dei “dissidenti” escadallefiledell’apparatodelregime, e spesso vi abbia ammucchiato una fortuna patrimoniale prima che politica, è probabilmente la conseguenza naturale di una società così piccola e stretta, dove anche la vita pubblica è una questione di famiglie. Del resto i dissidenti possono riuscire più o meno a regola d’arte, ma la tortura, la galera, la morte, sono cose serie, e rendono serio qualunque scherzo di mano e di pensiero.


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