by Sergio Segio | 4 Agosto 2013 8:38
La disputa su chi ha diritto di votare per il segretario (che per statuto sarà poi anche il candidato premier alle prossime elezioni politiche) riguarda tutti noi, non soltanto i democratici. Quando fu fondato, questo partito fu pensato e strutturato come se dovesse diventare il protagonista di una democrazia bipolare all’americana e con vocazione presidenzialista. Questa era la visione di Walter Veltroni. Liquidata la piramide di organismi che governavano iscritti/e e articolavano idee politiche sulle quali identificarsi e a partire dalle quali dare battaglia agli avversari, il nuovo partito doveva essere un’associazione leggera di simpatizzanti e soprattutto votanti di leader e candidati. Una macchina per registrare il consenso elettorale più che farsi promotrice di creare consenso sulle idee. Lo statuto del partito riflette questa trasformazione.
Ecco la definizione contenuta nel primo articolo: “Il Partito Democratico è un partito federale costituito da elettori ed iscritti”. Costituito da chi ha diritto di voto, cioè, quindi idealmente da tutti noi cittadini/e italiani/e. Non solo dagli iscritti. Potrebbe sembrare che questa visione inclusiva sia in sintonia con la natura democratica – non chiudere le paratie con la società, rendere il partito permeabile e aperto a tutti in ogni momento. È una visione peculiarmente post-partitica per la quale la figura più importante (quella che oggi fa più discutere) è quella dell’elettore, non dell’iscritto. Gli elettori possono certo votare questo partito quando lo ritengono opportuno, ma non sono per questo parte “del partito democratico” come lo sono invece gli iscritti. Questi, non i primi, sono i componenti del partito, perché questi, non i primi, hanno rinunciato alla segretezza del voto dicendo a tutto il mondo da quale “parte” stanno. È questa la ragione per la quale sarebbe ovvio pensare che le cariche del partito siano oggetto di decisione da parte di chi si dichiara pubblicamente legato alla “parte”. La scelta del segretario dovrebbe competere a chi è espressamente parte. Semmai, questa inclusione universale potrebbe essere adattata alla scelta del candidato premier (come avviene negli Stati Uniti), benché anche in questo caso le paratie dovrebbero poter essere abbassate in qualche punto del grande oceano del corpo elettorale, affinché destra e sinistra non si confondano come in un grande minestrone di idee e interessi pronti a salire sul carro dell’ipotetico vincitore.
Ecco dunque che lo statuto definisce anche gli “elettori/ elettrici” democratici. Lo fa al comma 3 dell’articolo 2: “Ai fini del presente Statuto, ove non diversamente indicato, per ‘elettori/elettrici’ si intendono le persone che, cittadine e cittadini italiani nonché cittadine e cittadini dell’Unione europea residenti in Italia, cittadine e cittadini di altri Paesi in possesso di permesso di soggiorno, iscritti e non iscritti al Partito Democratico, dichiarino di riconoscersi nella proposta politica del partito, di sostenerlo alle elezioni, e accettino di essere registrate nell’Albo pubblico delle elettrici e degli elettori”. L’elettore che dichiara il proprio voto e quindi rinuncia a quelle garanzie di segretezza di cui godono tutti gli elettori italiani secondo la Costituzione, viene a costituire un altro raggruppamento, diverso da quello degli iscritti. Gli “elettori/e” sono elencati in un Albo che è pubblico e per questa ragione possono, come gli iscritti, partecipare alle scelte elettorali – votare per il candidato segretario e per il candidato premier. Si intuisce quanta importanza possa avere per i candidati fare affidamento su pacchetti di “elettori/ elettrici”. Alla fine dell’elezione, gli iscritti contano assai meno degli “elettori/elettrici” in quanto il loro numero è molto più basso e poi non tende, come quello degli iscritti all’Albo, a variare in coincidenza con le elezioni del segretario o del premier.
Lo statuto del Partito democratico ha come si vede una vocazione plebiscitaria, per la quale il collettivo degli iscritti ha meno rilevanza del numero dei votanti (anche per questa ragione la sua vita politica interna è molto povera). Una vocazione che interpreta la partecipazione come plebiscito che deve confermare l’appetibilità di un leader e della sua immagine, piuttosto che mettere a fuoco un programma di governo. Questo si verifica già ora, quando i candidati che hanno annunciato di competere per il ruolo di segretario “ci mettono la faccia” ma molto meno le idee. È del resto il capo che deve essere oggetto di plebiscito non i programmi, troppo complessi e deliberativi. Il partito plebiscitario ha un deficit di rappresentatività a fronte di un eccesso di personalismo.
L’innamoramento di molti democratici per la forma semi- presidenziale di governo trova nella struttura del loro partito una ragione non peregrina. Il modello di partito che lo statuto del Pd propone induce a leggere la democrazia elettorale come democrazia plebiscitaria più che come democrazia rappresentativa, più radicata nel leader che nel Parlamento, più intenta a votare sì/no che a discutere e schierarsi per una qualche visione. Un partito poco deliberativo. E questo trova conferma anche nell’unificazione delle cariche di segretario e di candidato a premier, la quale impone che la scelta del primo venga fatta pensando non a che cosa propone e rappresenta rispetto all’identità del partito, ma a quanto attraente sia per l’opinione pubblica e il network mediatico, a quante chance ha di vincere le elezioni. Partito debole per una leadership forte, con molte inquietanti implicazioni che si distendono oltre via del Nazareno.
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