Il «principe delle bombe» che sfugge ai droni e alla Cia

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Lo rivelano alcuni episodi, concatenati. Il 16 luglio Al Qaeda nella Penisola arabica ha annunciato la morte di Said Al Shiri, numero due dell’organizzazione rimasto ferito, durante l’inverno, in un raid di droni. I suoi compagni lo hanno celebrato promettendo lotta ad oltranza. Moniti che non hanno certo fermato i «mietitori di Obama»: per tre volte in questi ultimi dieci giorni i droni hanno sferrato nuove incursioni colpendo i militanti e alcuni civili. L’ultimo colpo nell’Hadramaut, regione inospitale per i «bianchi» ma rifugio per tanti ricercati. Gli attacchi facevano parte della «caccia» globale che gli Usa hanno affidato ai velivoli senza pilota oppure erano azioni di pressione nel timore di sorprese? E i missili Hellfire — costo 100 mila dollari a pezzo — inseguivano bersagli generici o, invece, avevano scritto sulla loro testata il nome di Ibrahim Al Asiri?
Come hanno raccontato fonti dell’intelligence al settimanale Time «è lui il nostro uomo». C’è lui in cima alla lista degli obiettivi che la Cia presenta all’entourage del presidente. Al Asiri è da tempo un morto che cammina, prima però devono scovarlo ed eliminarlo. Saudita di Riad, sulla trentina, una vita passata a nascondersi, è il principe delle bombe. Ne ha costruite d’ogni tipo, sempre più piccole, facilmente occultabili. Ha iniziato con quella celata sul corpo del fratello Abdallah, mandato a morire nel tentativo di eliminare, nel 2009, il principe Nayaf, allora responsabile dell’antiterrorismo saudita. Poi è passato alle mutande bomba affidate al nigeriano Faruk Abdulmutallab al quale avevano assegnato la missione di distruggere un jet Northwest sul cielo di Detroit. Ancora: gli ordigni infilati in cartucce per stampanti e spediti su aerei cargo. E poi una cintura da kamikaze preparata per un attentatore che era in realtà un infiltrato saudita. Anche in questo caso voleva incenerire un aereo civile. Piani ambiziosi falliti all’ultimo istante o sventati. Sconfitte tattiche che — sostengono a Washington — non hanno intaccato la sua voglia di annientare il nemico. Ibrahim non si abbatte. «A nostro figlio hanno fatto il lavaggio del cervello — è la tesi dei genitori. —. È stato manipolato da altri». Gli «altri» sono i vertici di Al Qaeda nella Penisola arabica, formazione più viva che mai malgrado quei missili tirati dagli Usa. Per gli analisti la fazione è decisa a saldare il conto con gli americani. Ha studiato per anni le contromisure adottate a protezione del trasporto aereo, ha imparato dai suoi errori, ha cercato nuovi «esecutori» per gli attentati. In particolare degli elementi insospettabili, in possesso di documenti occidentali «puliti», mai schedati nelle liste nere e spesso reclutati nei Paesi europei. Un modus operandi suggerito dai responsabili operativi e da uno yemenita-americano, l’imam Anwar Al Awlaki, altra preda uccisa dai droni insieme al figlio e ad un collaboratore, sempre di nazionalità statunitense anche se nato nello Yemen.
Indagini, non definitive, hanno ipotizzato che Al Qaeda nella Penisola arabica abbia l’ambizione di ispirare gruppi affini presenti in altri scacchieri. Si è persino sospettato un ruolo nell’assalto al consolato statunitense di Bengasi l’11 settembre di un anno fa. L’attenzione sullo Yemen se giustificata da quanto raccontato può però fare il gioco dei criminali: tutti guardano a Aden e, invece, l’attacco arriverà da un’altra parte. Non sarebbe la prima volta.
Guido Olimpio


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