Il Cavaliere va in trincea “Venderò cara la pelle”

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 È IL tardo pomeriggio e il leader ha già convocato alla Camera i gruppi parlamentari Pdl alle 18, ma arriverà con 55 minuti di ritardo. Il colloquio telefonico avuto da Gianni Letta (secondo alcuni dallo stesso Berlusconi) col presidente della Repubblica, in vacanza in Alto Adige, dura molto meno. Ma sono minuti sufficienti a comprendere come non vi siano spiragli. «La grazia non esiste».
La strategia era stata concordata nel lungo vertice durato quasi tutto il giorno a Palazzo Grazioli, presenti i figli Marina e Piersilvio, oltre a Gianni Letta, Alfano, i capigruppo Brunetta e Schifani, Verdini e Santanché. Concedere al Quirinale la disponibilità a dimettersi da senatore subito. Optare per il carcere a settembre, ottenendo in cambio dalla presidenza Napolitano la garanzia che quel giorno stesso pubblicasse il provvedimento di grazia. Un copione messo a punto al quartier generale per risolvere all’insegna della «pacificazione». Di più, rafforzata dalla disponibilità di Berlusconi a fare un passo indietro, a ritirarsi dalla leadership diretta. Inaccettabile per un capo dello Stato con la storia di Giorgio Napolitano, impraticabile in ogni caso per la Presidenza della Repubblica.
La linea il Colle l’ha già ribadita giorni fa, rispondendo a muso duro al direttore di Libero Maurizio Belpietro che la invocava. Non sussistono le condizioni, tanto più nei confronti di un condannato che ha altri carichi pendenti, altri processi in corso, altre sentenze di primo grado a suo carico. Per il Cavaliere è la fine, il punto del non ritorno. Torvo in viso, mascelle rigide, raggiunge Montecitorio, entra da via di Campo Marzio, sono quasi le 19.
Va al gruppo, lo attende la standing ovation lunga un minuto dei suoi deputati e senatori. È il preludio dell’escalation potrebbe portare a dimissioni di massa dei parlamentari, alla crisi, a nuove elezioni. Ma non prima che un passaggio formale venga compiuto. Domani i capigruppo Brunetta e Schifani saliranno al Colle per formalizzare la richiesta di grazia. Per quelle stesse ore Daniela Santanché e Denis Verdini hanno pianificato — a dispetto di una Roma in cui sono previsti 40 gradi e già mezza deserta — una manifestazione di piazza, da tenersi alle 18 a Piazza della Repubblica per poi muovere verso Piazza Santi Apostoli. Ancora incerta e da definire ieri a tarda sera. L’intento è quello di «sensibilizzare », diciamo così, la più alta carica
dello Stato all’accoglimento della richiesta. Una pressione che anche Gianni Letta e Angelino Alfano avrebbero sconsigliato di esercitare. Invano, a quanto pare. Sono gli stessi che durante il vertice del pomeriggio avevano azzardato un suggerimento al capo, quello di giocare d’anticipo e dimettersi da senatore, evitando il voto d’aula a Palazzo Madama dopo la condanna. Un segnale, anche quello, di disponibilità da recapitare al Colle. Ma Berlusconi non ci sta, lo dice subito, non intende dimettersi. «Venderò cara la pelle» avverte tutti. E ha aggiunto: «Mi hanno perfino ritirato il passaporto, neanche fossi un criminale comune».
Di Angelino Alfano e del capogruppo Renato Brunetta si ricorderanno le lacrime, durante l’assemblea dei gruppi. Berlusconi si era commosso a sua volta dopo il lungo applauso. Salvo poi prendere la parola e passare all’attacco. «Non possiamo sottrarci al dovere di una vera riforma della giustizia per questo siamo pronti alle elezioni. Dobbiamo chiederle per vincere e raggiungere i nostri obiettivi.
Ma non siamo precipitosi, riflettiamo sulla strada migliore da percorrere ». Fa un escursus del «processo farsa», è «innocente», non ha mai commesso reati di frode fiscale. Poi torna alla politica: «L’unica nostra colpa è non aver mai preso il 51 per cento e questo ci ha impedito di fare la riforma liberale, colpa dei veti dei piccoli partiti». In un gioco delle parti, tuttavia, il Cavaliere appare quasi cauto. «Riflettiamo se andare davvero a elezioni, come ci converrebbe fare e non abbiamo fatto finora per senso di responsabilità, valutiamo quale sia la soluzione migliore nell’interesse del Paese». Poi però prende la parola il segretario Alfano, proclama sua ennesima dichiarazione d’amore al leader, si commuove, piange e annuncia — come concordato nel vertice ristretto del pomeriggio a Palazzo Grazioli — che lui e gli altri quattro ministri hanno di fatto rassegnato le loro dimissioni nelle sue mani. Non in quelle del premier Letta, dunque, ma del leader del partito. «Presidente, se continueranno a offendere la tua storia che è la nostra storia di questi ultimi vent’anni, allora non possiamo accettarlo, noi in te ci riconosciamo» è la giaculatoria del segretario che conclude sulla scia di uno scroscio di applausi. Dimissioni pro forma dei ministri, dunque. E i parlamentari? A quel punto intervengono i capigruppo Schifani e Brunetta (anche il capogruppo alla Camera cederà all’emozione, in quei momenti carichi di pathos).
Saranno loro, gli unici a far esplicito riferimento alla grazia che sarà invocata al Quirinale. Lo faranno nel chiuso dell’assemblea coi parlamentari e poi fuori, parlando coi giornalisti. «Ci muoveremo a breve con Brunetta perché ti possa essere restituita nel rispetto della Costituzione quella libertà che ti spetta, presidente — dice Schifani rivolto al Cavaliere — Lo dobbiamo alla tua storia, così da ottenere da Napolitano il ripristino dello stato di democrazia che questa sentenza ha alterato». Diranno proprio così, «alterazione dello stato di democrazia » e per ciò saliranno al Colle già domani, se il presidente — come sembra — concederà loro l’incontro di ritorno dalle sue vacanze in Alto Adige. Un applauso collettivo conferma la disponibilità di tutti alle dimissioni. Escono d’umore nero soprattutto i ministri, da quell’assemblea, e un po’ tutti i parlamentari. Col tam tam generale che già indica nel 27 ottobre, in concomitanza col voto in Trentino Alto Adige, la data da cerchiare in rosso per il voto anticipato. Quirinale permettendo.


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