Così è saltato l’aiuto della prescrizione

by Sergio Segio | 2 Agosto 2013 7:17

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Senza più la fonte miracolosa delle leggi ad personam che cambiavano in corsa le regole del gioco, e senza più stretti collaboratori che si assumessero o calamitassero responsabilità di illeciti attuati nel suo interesse (come nel 1994 il direttore fiscale Fininvest Salvatore Sciascia per le tangenti alla Guardia di Finanza nel primo avviso di garanzia al Cavaliere, o come nel 2006 l’avvocato Cesare Previti per la sentenza comprata sul lodo Mondadori), stavolta l’ex premier non fa in tempo a cogliere il salvagente della prescrizione, che già per 7 volte lo aveva messo al riparo dai fatti attestati nelle motivazioni di altrettante sentenze: la corruzione giudiziaria del testimone David Mills (estinta in Tribunale), la corruzione giudiziaria del magistrato Vittorio Metta nel lodo Mondadori (estinta in Cassazione), il finanziamento illecito di 23 miliardi di lire al segretario socialista Bettino Craxi (estinto in Appello dopo una iniziale condanna a 2 anni e 4 mesi), la falsità dei bilanci consolidati Fininvest per 1.500 miliardi di lire (estinto in udienza preliminare dopo un modifica di legge), le manipolazioni contabili nell’acquisto dal Torino dell’attaccante milanista Lentini (estinto in Tribunale), l’appropriazione indebita e il falso in bilancio in un precedente segmento sempre del processo Mediaset (estinti durante il primo grado), e la rivelazione di segreto d’ufficio dell’intercettazione Fassino-Consorte (estinta tra un mese, prima dell’Appello e dopo la condanna in Tribunale a 1 anno).
Ed è crudele per l’ex premier la beffa di vedersi afferrare da una indagine proprio del pm che definì «famigerato», quel Fabio De Pasquale che, al centro di polemiche sin dal suicidio di Gabriele Cagliari e non troppo amato anche dai suoi colleghi per il carattere spigoloso, risulta tuttavia aver istruito le inchieste che hanno via via determinato in Cassazione la prima condanna definitiva del segretario psi Bettino Craxi, la prima del costruttore Salvatore Ligresti, la prima del banchiere di «Mani Pulite» Chicchi Pacini Battaglia, e ora appunto la prima di Berlusconi.
L’hanno vergata ieri 5 «fruttivendoli» della Cassazione, trovatisi cioè nella condizione psicologica dell’ortolano di Vaclav Havel che ne Il potere dei senza potere (1978) finisce tartassato solo perché compie il banale ma insubordinato gesto di togliere dalla vetrina lo sbiadito cartello «proletari di tutto il mondo unitevi», al quale nessun altro negoziante crede più e al quale ormai tutti sono perfino indifferenti, ma che nessuno si azzarda a levare per adattamento alle circostanze o acquiescenza agli equilibri e alle compatibilità richieste da asseriti interessi superiori. Formidabili pressioni si sono concentrate in queste settimane su giudici di Cassazione invitati con maggiori o minori garbo istituzionale e buona fede, un giorno sì e l’altro pure, a badare che assolvere o condannare Berlusconi secondo solo il loro convincimento sulle carte sarebbe stato un lusso che non ci si poteva permettere, e che dal loro verdetto sul cittadino Berlusconi sarebbero dipesi non solo e non tanto la sorte del governo Letta, quanto addirittura i destini del Paese.
Hanno invece scelto (per dirla alla Havel) di «vivere nella verità» nel senso di assumere un verdetto secondo la propria coscienza, non ipotecato da compatibilità istituzionali: quella verità, scriveva, che «non ha solo una dimensione esistenziale (restituisce l’uomo a se stesso), noetica (rivela la realtà com’è) e morale (è un esempio), ma ha anche una evidente dimensione politica». Ecco: a loro modo hanno fatto una sentenza davvero politica, i «fruttivendoli» della Cassazione.

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