Stragi con pochi colpevoli ancora in cerca di verità

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Rimangono alcune interdizioni dai diritti civili, ma per il resto sono cittadini come gli altri. Rei confessi di tanti crimini — omicidi, ferimenti, rapine e reati collaterali — più uno che continuano a negare e rifiutare: la bomba esplosa la mattina del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, 85 morti e oltre 200 feriti.
Tra ferite e polemiche
Anche quest’anno le celebrazioni dell’anniversario riapriranno ferite e polemiche tra chi inneggia a quella sentenza di colpevolezza per i giovani neofascisti dei Nuclei armati rivoluzionari e chi insiste a dire che è sbagliata, che quei «ragazzini» non c’entrano, e dietro l’esplosione c’è il terrorismo medio-orientale, la Libia o qualche intrigo internazionale. Insieme a Mambro e Fioravanti è stato condannato a trent’anni di carcere anche Luigi Ciavardini, all’epoca ancora minorenne; oggi è «semilibero», esce di prigione al mattino e rientra la sera. È l’unico colpevole ufficiale (anche lui si proclama innocente per quel fatto) che ha ancora una pendenza penitenziaria. Gli altri due condannati sono completamente liberi, senza più nemmeno le restrizioni previste nei cinque anni di «libertà condizionata» che anticipano l’uscita definitiva. Anche se continuano a trascorrere gran parte delle loro giornate nel chiuso di un ufficetto nella sede romana del partito radicale, a tradurre documenti e organizzare iniziative contro la pena di morte nel mondo.
È il primo anniversario che si celebra in questa situazione, senza cambiare la sostanza dei verdetti e delle verità svelate o meno dai processi per strage. Quello di Bologna è uno dei pochissimi che s’è concluso con l’indicazione dei colpevoli; molti meno, in verità, rispetto agli imputati iniziali. In carcere, ininterrottamente dal 1979, senza aver messo il naso fuori nemmeno per un giorno, resta Vincenzo Vinciguerra, neofascista di Ordine nuovo e Avanguardia nazionale, oggi sessantaquattrenne; ha organizzato (e confessato), la strage di Peteano, 31 maggio 1972, tre carabinieri uccisi da un’autobomba in provincia di Gorizia. L’altro responsabile, l’ordinovista Carlo Cicuttini, è morto nel 2010. Vinciguerra, detenuto nella prigione milanese di Opera, la stessa di Riina, non ha mai chiesto un giorno di permesso per sua scelta. Continua a scontare una condanna a vita che in qualche modo ha rivendicato, dopo aver gettato sprazzi di luce, attraverso le sue dichiarazioni, sulla cosiddetta «strategia della tensione».
Da ergastolano è morto in carcere nel 2000 Gianfranco Bertoli, arrestato il giorno dell’attento alla questura di Milano il 17 maggio 1973. Lanciò una bomba a mano che uccise 4 persone e ne ferì una cinquantina. Doveva ammazzare il ministro dell’Interno Rumor, compito affidato in precedenza a Vinciguerra che s’era rifiutato, e avendo subodorato una poco gradita alleanza tra neofascisti e apparati dello Stato s’era ribellato facendo saltare in aria i carabinieri a Peteano (e pure in quell’occasione s’innescò un groviglio di macchinazioni istituzionali per deviare le indagini). Bertoli aveva quarant’anni e sosteneva di essere anarchico, ma è sempre rimasto una figura ambigua dalle anomale frequentazioni, tra servizi segreti e ambienti della destra golpista. Poi basta. Altri condannati per le stragi che hanno segnato il periodo tra il 1969 e il 1980 non ce ne sono. Solo un manipolo di estremisti veri o presunti, a fronte di misteri mai svelati, colpevoli che l’hanno fatta franca, depistaggi a volte smascherati e a volte no, risultati giudiziari del tutto insoddisfacenti, giudici scippati dei processi, trame occulte a volte solo intraviste e comunque rimaste impunite.
Il decennio degli eccidi
È il bilancio sconfortante e inquietante di inchieste e giudizi che si sono trascinati ben oltre il decennio degli eccidi (basti pensare che alla vigilia del quarantesimo anniversario è ancora aperto il processo per la strage di piazza della Loggia a Brescia, 28 maggio 1974). E che però, pur non riuscendo a inchiodare i colpevoli, hanno spesso svelato il contesto storico, politico e ambientale delle bombe che hanno accompagnato un’intera stagione della cosiddetta Prima Repubblica: quella del tramonto del centrosinistra e della faticosa apertura al partito comunista (passando per un rapido ritorno al centrodestra), definitivamente abortita con l’omicidio di Aldo Moro.
Sotto questo aspetto resta emblematica la vicenda giudiziaria seguita alla bomba di piazza Fontana. Le indagini milanesi spostate a Roma grazie alla pista anarchica poi rivelatasi falsa, accesero i riflettori sui neo-fascisti veneti grazie al contributo dei magistrati di Treviso e Padova. E arrivarono ben presto, con l’incriminazione degli uomini dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno e del servizio segreto militare, a far emergere le manovre degli apparati istituzionali per occultare le prove e proteggere gli attentatori. I processi si svolsero a Catanzaro, sede scelta per evitare ipotetici «condizionamenti ambientali» dei giudici, e si conclusero col tradizionale esito altalenante di condanne e assoluzioni. Fino al colpo di spugna finale. Poi ci fu la riapertura delle indagini negli anni Novanta che portò ai dibattimenti a carico di nuovi presunti responsabili, con gli stessi oscillanti esiti sebbene ci fosse un reo confesso pentito (Carlo Digilio, morto nel 2005). Le sue confessioni non sono bastate a far condannare i coimputati, ma almeno in questo caso l’ultimo verdetto della Cassazione ha consegnato alla storia i responsabili acclarati ma non più giudicabili perché già assolti con sentenza definitiva: il neofascista dalle inclinazioni naziste Franco Freda e il suo sodale Giovanni Ventura, morto nel 2010.
Come un romanzo nero
Sembra un romanzo nero dal finale beffardo, che s’è ripetuto con l’ennesimo processo per la strage di Brescia (manca ancora l’ultimo passaggio in Cassazione, previsto per la prossima primavera) che ha portato alla luce in maniera sufficientemente chiara il contesto in cui maturò la bomba del 1974, l’anno del referendum sul divorzio che annunciava l’avanzata delle sinistre. E ancora una volta le bugie del vertice del servizio segreto, che indicava piste false e teneva nascoste quelle vere. Sono processi in cui ogni volta si ripercorrono le molte tappe oscure del decennio; non solo le stragi, ma pure i tentativi di colpo di Stato, le manovre sotterranee della P2 e dell’alleato statunitense ossessionato dal pericolo comunista, gli attentati falliti o programmati.
Due mesi dopo Brescia scoppiò la bomba che sventrò il treno Italicus, 12 morti e 48 feriti. Era il 4 agosto 1974, dopodomani saranno trentanove anni. Anche per quella vicenda s’è verificato il tradizionale andirivieni di condanne e assoluzioni (accompagnate dai soliti bastoni infilati tra le ruote della macchina giudiziaria) sempre negli ambienti neofascisti. Tra gli imputati dell’Italicus c’era Mario Tuti, terrorista nero assolto per quell’attentato ma colpevole di aver ammazzato due poliziotti che erano andati ad arrestarlo nel 1975 e un testimone della strage di Brescia, in carcere, nel 1981. Tuti sconta l’ergastolo, dal 2004 è semilibero, si occupa di recupero di tossicodipendenti. A chi gli ha chiesto come ricordasse la stagione del tritolo e del piombo di cui è stato protagonista ha risposto: «Il distacco è notevole, anche perché comunque sono stati anni feroci, che hanno seminato morte, sangue, dolore».


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OMBRE ARGENTINE

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LE COSE hanno due facce.
Almeno due. La prima è bella, affabile e piena di speranza. Loro il papa straniero l’hanno trovato. Straniero, benché non tanto. A Buenos Aires, mi pare, gli italiani li chiamano “tanos”, che è l’abbreviazione di “napolitanos”, ma ci fu un lungo tempo in cui arrivarono soprattutto dal Piemonte e dal Veneto. Il Piemonte di quelli che stanno in fondo alla campagna, e hanno visto Genova e il mare solo per salpare alla volta della fine del mondo.

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