L’umanità dei personaggi ultimi
Erano gli anni in cui la smania di leggere libri non mi era meno inconcepibile dell’impellenza di scriverli. Trascorrevo il tempo nel grande giardino condominiale — appannaggio del comprensorio residenziale in cui ero nato —, condividendo, con una trentina di coetanei, una vita selvatica, sportiva e tutto sommato spensierata. Era un parco misterioso nel quale ogni tanto poteva capitare di imbattersi in un eccentrico signore su cui fantasticare. Non somigliava in niente ai nostri padri borghesi: bello, pallido, indosso sempre lo stesso abito (sia d’estate che d’inverno).
Era impossibile immaginarlo intento in un’attività alternativa al meditabondo passeggiare. Un insonne contaballe assicurava di averlo visto camminare alle quattro del mattino sotto la pioggia. C’era chi giurava di averlo beccato mentre, chino in terra, strofinava vigorosamente un tombino. Un giorno anche io lo vidi in ginocchio. Non alle prese con un tombino, ma con una ruota a terra. Aveva l’aria perplessa e disperata di chi si prepara all’ennesimo fallimento. Con che temerarietà mi offrii di aiutarlo! Mi porse il crick con il gesto mortificato del monarca deposto che consegna lo scettro all’usurpatore. L’operazione durò una decina di minuti, durante i quali tacemmo. Dopo avermi ringraziato in un modo stranamente cerimonioso, mi chiese: «Così studi latino?». Alludeva alla busta che avevo in mano contenente Urbis et orbis, la famosa grammatica di Tantucci, appena acquistata (a settembre avrei iniziato il Ginnasio). «Ancora no» risposi. Quella stessa sera ricevetti un libro: l’Eneide. La dedica però non era di Virgilio, ma di uno dei suoi più famosi traduttori: Luca Canali. Fu così che diedi un nome a quell’indefesso camminatore; è così che scoprii che oltre a camminare traduceva grandi classici latini.
Passò un bel pezzo prima che mi imbattessi nei suoi libri di narrativa: già sedotto dall’idea di diventare scrittore, considerai i libri di Canali (e il ricordo del nostro incontro) l’ennesimo incoraggiamento. Un libro su tutti: Autobiografia di un baro.
Ecco perché sono così felice che Mondadori, dopo tanti anni, abbia deciso di ripubblicare questo piccolo classico introvabile. Un libro struggentemente ispirato che, insieme a La resistenza impura, Amate ombre, Il sorriso di Giulia e Spezzare l’assedio, forma una costellazione morale, per me assolutamente inconfondibile: il mondo sofferente e pietoso di Luca Canali.
Per capire Canali (o almeno il Canali dell’Autobiografia) occorre capire la sua sintassi: quell’incalzare ipotattico che rende i periodi solenni; per non dire dell’accorgimento tipicamente latino di porre il verbo alla fine della frase: una tecnica che lascia il lettore senza fiato. Poi c’è l’aggettivazione: ricca e drammatica; e il gusto nell’affiancare vocaboli dotti a parole corrive, termini tecnici desunti da altre lingue a espressioni gergali.
Sentite qui con che classe si presenta il Narratore: «Stanco di sfiducia e malattie e di frequenti postriboli, ansioso di compiere un gesto che ridesse alla mia giovane carcassa avviata alla consunzione, e alla mia mente confusa da un quinquennio di eventi tragici, lo sfacelo nero e savoiardo, la “liberazione” multicolore Usa, britannica, francese, polacca, euforica e lanzichenecca, sfinito da errori, dolori, amori raminghi, guardinghi impotenti furori, per antiche e recenti suggestioni, cui non era estraneo l’invaghimento per il blu delle tute operaie e il rosso sangue-di-bue delle bandiere comuniste, ma soprattutto per smania di rinascere a un’idea di civile maturità, decisi di iscrivermi al Partito».
Autobiografia di un baro è la storia di un ragazzo romano di estrazione piccolo-borghese, se non proprio proletaria, nato nella seconda metà degli anni 20, e dotato dalla natura di avvenenza e di uno spiccato talento artistico, che, nel dopoguerra, si butta a capofitto nella lotta politica: non per astratto senso di giustizia, né per astioso ribellismo, ma per dare un senso a una vita che percepisce sempre più vacua, gratuita, irrilevante. Quello che ancora non sa è che il nemico da affrontare non ha niente a che vedere con i fascisti, né con i compagni troppo intransigenti, né con le ragazze sedotte, né con l’impotenza erotica, né con le ipocrisie del Partito durante i famosi fatti di Ungheria, né con l’impudicizia di Kruscev, e tanto meno con l’ignobile crudeltà di Stalin… Il nemico in agguato è la psicosi. Che lo condurrà sull’orlo del suicidio, che lo costringerà a diversi ricoveri psichiatrici, e che, soprattutto, dividerà la sua vita in due: il Prima e il Dopo, rendendolo a tutti gli effetti un sopravvissuto. Le pagine gogoliane in cui Canali descrive il repentino implacabile manifestarsi della malattia mentale sono degne del miglior Berto.
La prima volta che lessi Autobiografia di un baro (più o meno mille anni fa) lo trovai splendido. Ma soffrii nel non riuscire a capire il perché. Oggi lo so. Oggi so che un libro di narrativa funziona quando ti dà l’illusione che la voce di chi scrive arrivi direttamente da un altro mondo, da una sorta di imminente Aldilà: un regno dei morti che ha cambiato drasticamente le prospettive di chi lo abita. Per questo i romanzieri danno il meglio di sé quando invecchiano. Evidentemente la prossimità alla morte li rende un po’ meno vanitosi e un po’ più insofferenti. Il tempo è poco, vediamo un po’ di spenderlo bene. Ogni capitolo di Autobiografia di un baro è un ritratto: un medaglione di un tizio o una tizia che, per breve periodo, hanno avuto una certa importanza nella vita del narratore, e che ora per qualche ragione non ci sono più: lontani o morti, chissà.
Il dato toccante è che questi personaggi sembrano cadaveri riesumati per l’occasione. Appartengono all’epoca in cui il Narratore era ancora convinto di essere sano; in cui credeva, se non proprio nella redenzione, almeno in un’alternativa alle tenebre. È la siderale distanza da cui contempla i suoi personaggi che consente a Canali di raccontarli con indulgenza e pietà. Un’indulgenza che commuove. Una pietà che ti spezza il cuore.
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