by Sergio Segio | 1 Agosto 2013 8:25
NEW YORK — «Anche se gli Stati Uniti hanno accelerato la crescita dall’1,1 all’1,7%, si tratta di un valore al di sotto del potenziale che è del 2,5-3. Significa che resta difficile riassorbire la disoccupazione e garantire le classi medie per il futuro». Nouriel Roubini, il guru della New York University, invita a non farsi troppe illusioni sul contributo alla crescita mondiale della locomotiva-America. «Il problema è che se l’America si muove ancora lentamente, l’Europa è ferma e resta sull’orlo di una recessione diffusa. Nel frattempo perfino i Paesi emergenti stanno frenando: in Cinamalgrado le rassicurazioni governative la crescita crolla, in India si è scesi dal 9 al 5% in due anni, il Bric dipendente dalle materie prime (Brasile, Sudafrica, Russia) risente della fine del boom delle commodities. Il quadro complessivo è molto preoccupante». Incontriamo il guru nel luminosissimo loft del Greenwich Village trasformato in open space che ospita il Roubini Global Economics, diventato in pochi anni uno dei centri studi indipendenti più prestigiosi del mondo. Mentre parla, lo guardano con rispetto gli economisti che lavorano con lui, guidati da due italiani: Brunello Rosa, a capo delle macrostrategie, e Christian Menegatti, responsabile della ricerca.
Ieri Bernanke ha abbassato le sue valutazioni sull’economia americana e le prospettive di crescita a “modeste” chiarendo che per ora il quantitative easing
resta attivo. Una contraddizione con quanto diceva un mese fa?
«La Fed deve guardare al di là delle contingenze immediate. La crescita americana è dovuta solo al settore privato: il contributo degli investimenti pubblici specie di infrastrutture, è assente per i tagli di bilancio che l’amministrazione sta portando avanti. Bernanke quando parlava di una possibile fine degli acquisti di bond e di un futuro ipotetico rialzo dei tassi, intendeva che il settore privato non ha più bisogno di sostegni finanziari e bisogna concentrarsi sulle misure di finanza pubblica per arrivare ad una crescita più solida. Ieri ha confermato questa linea, prendendosi un po’ più di tempo e ribadendo il contributo dei bassi tassi sul medio periodo».
Lei diceva che il punto più debole dell’economia globale è l’Europa. In questo quadro, spicca per drammaticità la recessione italiana. Cosa fare?
«Beh, l’Italia non è il caso peggiore in Europa, Spagna e Grecia stanno peggio. Comunque, il continuo aggravarsi delle previsioni sul Pil italiano conferma che la strategia di attacco frontale alla crisi fatta quasi solo di aumenti fiscali non è appropriata. Se si resta focalizzati sul rapporto del 3% deficit/Pil, la situazione si aggrava ed è impossibile uscire dalla recessione. Di manovre e tasse non è il caso di parlare: serve un piano coerente contenente il calo del costo del lavoro sia per i dipendenti che per gli imprenditori, la rimodulazione fiscale complessiva fatta di alleggerimenti fiscali per i soggetti più deboli e aggravi per i più ricchi, massicci incentivi per chi assume i giovani. Con questo pacchetto il governo deve chiedere a Bruxelles lo sforamento temporaneo del 3% per permettere alla crescita di ripartire».
Letta ha la credibilità per convincere Bruxelles, Bce e mercati che il piano non franerebbe per mancanza di coperture?
«Sì, purché affronti i problemi in modo complessivo. Niente velletarietà alla Berlusconi: che senso ha chiedere l’abolizione dell’Imu? Significa dissipare il polmone finanziario, che può arrivare all’1,5% del Pil, di un’Imu rimodulata che gravi sui più abbienti. Anche sull’Iva serve lucidità, non escludendo la “svalutazione fiscale” come hanno fatto Francia e Germania: aumenti dell’Iva selettivi affiancati da tagli nelle imposte dirette su dipendenti e aziende. Si riposiziona l’Italia nella concorrenza globale riducendo il costo del lavoro e si garantisce ai cittadini più sicurezza e un reddito a conti fatti maggiore».
Saranno utili le misure non convenzionali contro il credit crunch varate dalla Bce sulle asset backed securities, ovvero il sistema secondo il quale le banche prestano alle imprese e danno i crediti in garanzia a Francoforte che le rifinanzia?
«No, è poco. La Bce deve essere coraggiosa sugli interventi convenzionali riducendo i tassi, e poi ampliare le condizioni per il finanziamento arrivando all’acquisto dei titoli cartolarizzati con i prestiti alle imprese, magari garantiti dalla Bei. Devono poi ripartire gli Ltro, i finanziamenti diretti, stavolta con l’obbligo di utilizzarli per le imprese e non per i titoli pubblici, come il funding for lendings scheme britannico»
.E’ simile al Tarp, il Troubled asset relief programamericano?
«Il Tarp contiene un’altra lezione: con un’iniezione di denaro furono ricapitalizzate le banche perché non smettessero di finanziare l’economia reale. In Europa non si è riusciti a fare nulla del genere spezzando il legame fra bilanci delle banche e debiti sovrani che sta inchiodando tutto».
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