I padroni di Internet così vendono spot senza pagare le tasse

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DAL web, il Grande Fratello ci spia, ma ci ruba anche posti di lavoro e ci rende un po’ più poveri: l’economia ha sempre difficoltà a sfuggire alla presa dei giganti. L’era delle Sette Sorelle di Big Oil è tramontata con le nazionalizzazioni del petrolio. Anche quella della Triade di Big Tobacco (Marlboro, Camel, Lucky Strike) si è rimpicciolita con le leggi antifumo. Ma solo adesso cominciamo a renderci conto che, nel nuovo secolo, dobbiamo confrontarci con i Quattro Cavalieri di Big Data: Google-YouTube, Microsoft, Yahoo e Facebook. Attraverso di loro passa il tradimento — deliberato o meno — della nostra privacy, di cui molto si è discusso, ma il loro dominio ha anche pesanti risvolti economici. I Quattro Cavalieri sono le più grandi aziende Internet a livello globale, per numero di utenti. In altre parole, nonostante siano tutt’e quattro americane, oltre l’80 per cento di chi passa per i loro server non è americano, ma, piuttosto, indiano, cinese, italiano o brasiliano. Questo vuol dire che i costosi investimenti che le telecom nazionali compiono per adeguare
le infrastrutture di banda larga (di cui, poi, noi abbiamo l’eco in bolletta) sono, di fatto, inghiottiti (gratis) dai Quattro Cavalieri: ogni minuto, su YouTube, vengono caricate, nel mondo, 100 ore di trasmissione video. Con piena soddisfazione degli utenti, possono sottolineare, con orgoglio, i dirigenti di Google piuttosto che di Facebook. Qui, però, il problema non sono i contenuti. Il problema è che i Quattro Cavalieri soddisfano, gratis, la loro voracità, ma sono anche molto bravi a farla fruttare in profitti sonanti. Come? Con la vecchia, indistruttibile anima del commercio: la pubblicità.
Nel buco nero di questi anni di recessione per la pubblicità italiana, Internet è l’unico punto di luce. Secondo i dati Nielsen, fra il 2008 e il 2012, la pubblicità digitale è aumentata di quasi l’80 per cento, mentre quella tv diminuiva del 17 e quella su stampa crollava di oltre il 42 per cento. Oggi, la pubblicità online vale oltre il 14 per cento della torta pubblicitaria globale: in cifre, un investimento di 1,4 miliardi di euro. Ma, attenzione, meno di un euro su cinque, di questo giro d’affari, riguarda concessionarie di pubblicità italiane. Oltre l’80 per cento, circa 1,15 miliardi di euro è patrimonio dei Quattro Cavalieri: Google, Msn, Yahoo, Facebook. Sono loro a gestire i banner e i video in cui vi imbattete, quando girate sul web. E i relativi incassi e profitti — come abbiamo imparato, nelle scorse settimane, con le polemiche su Google, Starbuck e Amazon — vengono rapidamente aspirati nel vorticoso e pirotecnico gioco delle tre carte, fra i paradisi fiscali di Dublino, Amsterdam e i Caraibi, che hanno assicurato, finora, alle multinazionali americane una tassazione vicino allo zero. Insomma, degli incassi di pubblicità sul web, fatturati estero su estero, in Italia non resta un centesimo, neanche al fisco. Ma non finisce qui. L’incrocio fra rete e globalizzazione produce, di fatto, un’attività apolide. Man mano che la pubblicità si trasferisce dalla tv e dalle pagine dei giornali al web, cresce anche la sua quota, priva di ogni riferimento nazionale. I giganti mondiali che impostano campagne di pubblicità globali — ad esempio su YouTube — non hanno nessun bisogno di passare per l’Italia, anche per la pubblicità diretta all’Italia. Comprano e gestiscono
la pubblicità verso gli utenti italiani, direttamente a New York, con i Quattro Cavalieri. «Gli acquisti di advertising fatti all’estero per l’Italia, non emergono in nessun modo in Italia» dice Andrea Pezzi, il titolare di Ovo, una realtà in rapida crescita nel settore della pubblicità video: «Nell’era degli open data, a nessuno è dato sapere quale sia il vero fatturato in Italia di queste multinazionali del digitale».
A stimare quanti investimenti pubblicitari per l’Italia passino su piattaforme internazionali, però, qualcuno ci ha provato. Ben oltre 800 milioni di euro l’anno, azzardano gli esperti, destinati a crescere sempre di più, man mano che la pubblicità svuota i giornali e riempie il web. Sommando gli 1,15 miliardi di euro fatturati ai Caraibi e gli almeno 800 milioni movimentati a New York si arriva a 2 miliardi di euro, che sfuggono agli editori
italiani, come agli occhi del fisco. Se pensate, però, che a rimpiangere questi soldi debbano essere solo editori e agenti delle tasse, vi sbagliate. La pubblicità è l’anima del commercio e una potente leva di sviluppo economico: tagliatela e anche l’economia in generale perderà colpi.
Un recente rapporto dello Studio Ambrosetti calcola che 100 euro investiti nel settore media e pubblicità producano un aumento del Prodotto interno lordo per 256 euro. In teoria, quindi, quei due miliardi di euro di pubblicità appaltati ai Quattro Cavalieri genererebbero circa 5 miliardi di euro di Pil, che invece non si materializzano perché l’investimento in pubblicità appare in Italia, ma, per così dire, non tocca mai terra. Nei calcoli del rapporto, tuttavia, si considera anche l’effetto di stimolo della domanda che genera la pubblicità e che anche banner e video gestiti dall’estero producono. La leva della pubblicità è, dunque, complessivamente, minore. Ma vale almeno la metà di quei 5 miliardi. Il solo effetto diretto — cioè già sulla stessa filiera produttiva del settore media — comporta che un investimento di 100 euro aumenti il Pil, secondo lo Studio Ambrosetti, per 127 euro. A cui aggiungere gli effetti indiretti sulle aziende collegate, come fornitori ecc.. Se quei due miliardi di euro circolassero in Italia, insomma, invece che all’estero, il Pil nazionale crescerebbe, in aggiunta agli stessi due miliardi, di altri 500-800 milioni di euro.
Anche più vistosi sarebbero gli effetti sull’occupazione. Qui, alcuni dati saltano all’occhio. Google, che in Italia incassa più di un miliardo di euro, risulta avere 120 addetti. In Francia, per un giro d’affari non troppo superiore, gli addetti sono mille. Vale anche per gli altri Cavalieri: Microsoft (60 addetti in Italia, 800 in Francia), Yahoo (90 contro 600), Facebook (15 invece di 200). Ma sono gli effetti complessivi che colpiscono. Ancora lo Studio Ambrosetti calcola che un addetto in più, nel settore media e pubblicità, crea 2,49 addetti nel complesso dell’economia. Se quei due miliardi di euro di pubblicità, invece di essere risucchiati all’estero, entrassero in circolo nell’economia italiana, gli effetti sarebbero immediati. Secondo analisi di settore, un aumento del 10 per cento del business di Internet (più o meno al livello francese) produrrebbe 200 mila occupati in più. E, siccome Internet è, anzitutto, roba da giovani, la metà dei neoassunti sarebbe nella fascia 15-24 anni, quelli della generazione dimenticata.


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