Zambia, la trincea d’Africa della guerra al Dragone

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LUSAKA. Lo “Shaft 3” della Collum è una fossa ripida e stretta, scavata sotto un tetto di lamiera: da qui al ventre della Terra sono più di mille passi. L’unico bagliore che s’intravede dal pertugio proviene dalla lampada di un minatore, che sta risalendo l’intestino bollente di questa miniera di carbone a 325 chilometri da Lusaka. Da quando nel 2003 Xu Jianxue, un uomo d’affari del Sud Est della Cina, ne ha preso il controllo, la Collum Coal Mine è diventata la prima linea di un’aspra battaglia che oppone i lavoratori dello Zambia agli abusi degli imprenditori cinesi. Proprio davanti a questo varco, le tensioni latenti nel Paese hanno raggiunto un punto di rottura. È successo tre anni fa: assiepati attorno alla cancellata, i lavoratori chiedevano salari adeguati. Due supervisori cinesi aprirono il fuoco contro i manifestanti. «C’è chi, sotto la cicatrice, ha ancora in corpo il proiettile, eppure le incriminazioni contro i due responsabili sono state rimosse », racconta Leonard Kwapizi, padre del più giovane fra gli 11 feriti. L’anno scorso, l’amara rivalsa: durante una nuova protesta in un pozzo vicino, lo “Shaft 5”, un minatore spinge un vagoncino carico di carbone contro i dirigenti cinesi. Uno muore, altri due restano feriti.
Come in molte altre nazioni africane, i cinesi sono un’importante presenza economica in questo Stato dell’Africa centromeridionale sin da quando, tra il 1970 e il 1975, questi costruirono la ferrovia che collegò il Paese, privo di sbocchi sul mare, alla città portuale di Dar es Salaam in Tanzania. Oggi lo Zambia è terzo al mondo per investimenti da Pechino: oltre due miliardi di dollari, per l’89 per cento concentrati nel settore minerario. I 50mila posti di lavoro creati sono una manna in una nazione di quasi 13 milioni di abitanti dove l’80 per cento non ha un impiego. Però i frequenti incidenti, le paghe sotto il minimo salariale nazionale e la costante violazione dei diritti della manodopera hanno convinto gli zambiani a vedere i cinesi non come benefattori, bensì come nuovi “dominatori”, più intenti a saccheggiare che a promuovere la loro patria. «Abbiamo un disperato bisogno di lavoro, è vero», inveisce un minatore. «Ciò non vuol dire che possono sfruttarci come schiavi».
La rabbia contro il Dragone ha determinato l’esito delle presidenziali due anni fa. A vincerle è stato il presidente del Fronte patriottico Michael Sata: in campagna elettorale aveva equiparato il lavoro nelle miniere controllate da Pechino allo schiavismo, e minacciato di deportare gli investitori che ignoravano le norme locali, guadagnandosi il soprannome di “Re Cobra” per le sue taglienti invettive. Conquistato il potere, però, il “Cobra” ha affidato ai cinesi la costruzione di strade e ferrovie, e ha incontrato il presidente Xi Jinping a Pechino in aprile.
«Il presidente Sata ha portato avanti una campagna populista per proteggere i lavoratori, perciò la mancanza di progressi significativi nel settore minerario è deludente », commenta Daniel Bekele, direttore della divisione africana di Human Rights Watch. L’associazione nel 2011 ha diffuso un rapporto sulle miniere della provincia di Copperbelt — letteralmente “cintura del rame”. Qui giacciono le riserve che fanno dello Zambia il terzo produttore al mondo di rame, e il primo in Africa. Benché quelle risorse contribuiscano al 75 per cento delle esportazioni nazionali e sino ai due terzi delle entrate governative, la popolazione non ne vede i benefici. Colpa del sistema fiscale, che permette alle multinazionali di non pagare tasse in Zambia. E della privatizzazione delle industrie minerarie imposta negli Anni ‘90 dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale in cambio della parziale cancellazione del debito.
Ora quasi tutte le miniere di rame sono in mano a compagnie cinesi sussidiarie della “Non-ferrous metals mining corporation” (Cnmc), un’impresa sotto l’autorità del governo di Pechino. A Chambishi è ancora vivo il ricordo della tragedia di Bgrimm: il 20 aprile 2005 un’esplosione nella fabbrica di dinamite di proprietà della cinese Nfc provocò la morte di 52 zambiani. Anni dopo, ha accertato Human Rights Watch, i pericoli restano. I dipendenti lavorano per 12 o persino 18 ore consecutive senza elmetti di protezione, e la ventilazione nei tunnel sotterranei è insufficiente. «Respiriamo agenti chimici», racconta un dipendente della Sino Metals. «Se ti trovi in un punto pericoloso, ti dicono di continuare a lavorare. Pensano solo alla produzione, non alla sicurezza. Se qualcuno muore, potrà essere rimpiazzato l’indomani. Se denunci un problema, vieni licenziato ».
Recriminazioni a cui, in un delicato esercizio di equilibrismo, il governo di Lusaka, pur bisognoso di investimenti stranieri, cerca di dare risposta. Lo scorso febbraio, raccogliendo il malumore dei lavoratori per i frequenti incidenti alla Collum, ha revocato le licenze a Jianxue. A rilevarle sarà un’azienda sussidiaria della compagnia mineraria statale (Zccm-Ih) le cui priorità, assicura Richwell Siamunene, vice ministro per il Commercio e l’Industria, saranno «la sicurezza e la salute dei dipendenti ». Questo precedente fa sperare ai lavoratori locali che “Lo Zambia agli zambiani”, gridato più volte dal presidente Sata durante i comizi due anni fa, non resti un vuoto slogan elettorale.


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