Un male necessario chiamato vittoria
Si racconta che Wellington, percorrendo la sera a cavallo il campo di Waterloo cosparso di cadaveri, dicesse che «dopo una battaglia perduta, la cosa più orribile è una battaglia vinta». Questa frase del vincitore di Napoleone ci fa sentire con forza come, in tanti o forse nella maggior parte dei casi, la vittoria può e deve essere sperata, perseguita e ove possibile ottenuta, ma non può essere mai amata. La vittoria, più che un bene, appare come un male necessario, come un male minore rispetto a mali più grandi che deriverebbero dalla sconfitta.
Una vittoria, in certi casi, può far cessare una minaccia di distruzione, porre fine a una barbarie, difendere la libertà, ma non può mai dare la felicità. Quando la Seconda guerra mondiale si conclude, grazie a Dio, con la disfatta del Terzo Reich, è ovvio il senso di liberazione, di festa che prova l’umanità. Ma, proprio in quel momento, Elias Canetti — che non solo in quanto ebreo ma in quanto uomo appassionato difensore di ogni palpito di vita umana ha tutte le ragioni per salutare con la più grande partecipazione quella liberazione — sottolinea l’esigenza di «entwerten den Sieg», di svalutare la vittoria; di non farne un idolo, di non inebriarsene, perché nell’ebbrezza di vittoria, non a caso così coltivata e messa in scena da tutti i regimi totalitari, egli vede la seduzione e la tentazione di ciò che per lui è il Male per eccellenza, il Potere, l’istinto di dominare gli altri, piegarli, umiliarli e distruggerli; la perversa strategia di sopravvivere agli altri.
La Vittoria sembra spesso accompagnata da un’aura di malinconia; nel carro di trionfo che porta il vincitore tra le ali festanti del popolo c’è sempre un presagio di caducità, di gloria mista al dolore e non solo per la vista dei prigionieri vinti in catene che, come nei trionfi celebrati nell’antichità, seguono il carro vittorioso. Naturalmente non soltanto le pacchiane dittature e le società totalitarie e belliciste hanno celebrato con enfasi la vittoria, spesso promettendola vanamente come una preda a portata di mano e conducendo in tal modo i loro popoli alla sconfitta, come quando Mussolini esaltava gli otto milioni di baionette. Anche grandi civiltà hanno celebrato la vittoria: le odi di Pindaro per i vincitori dei giochi olimpici dell’antica Grecia creano, con la loro potenza poetica, un’aura autenticamente divina intorno agli atleti che conseguono l’alloro. Ma la civiltà greca non è solo Pindaro; è anche Aristofane, che su quei celesti allori olimpici getta l’ombra — più che l’ombra, una feroce dissacrazione, uno smascheramento — di imbrogli e pastette, di giochi truccati, non troppo dissimili dalla corruzione odierna trionfante nello sport e non solo nello sport. Il dio che guida come auriga il cocchio dell’eroe può essere spesso il dio danaro.
Del resto, per quel che riguarda il rapporto tra la vittoria e la guerra, il più grande libro che sia mai stato scritto — e che probabilmente continuerà a esserlo sempre — sulla guerra, l’Iliade, racconta una guerra vittoriosa per i greci, popolo cui appartiene l’autore (o l’autrice, o gli autori) di quel capolavoro. Nell’Iliade la guerra e la vittoria stessa sono certo una celebrazione del valore, ma sono pure un grande lutto, una manifestazione di morte più che di vita e questo vale per tutti, per i vincitori come per i vinti. Non solo chi racconta la guerra e la vittoria, ma spesso anche chi la fa e la produce rivela questa simbiosi di valore, necessità e volontà di vincere e malinconia di vincere. Non a caso tanta letteratura vicina alla vita militare rivela questo senso di profonda malinconia che nasce proprio dalla vita militare — ossia dalla preparazione alla guerra e alla vittoria, almeno perseguita. Guerra e vittoria si accompagnano a un sentimento malinconico della vita. Pochi hanno fatto sentire la dignità, la grandezza e l’oscurità della vita militare come Alfred de Vigny, che non vuole certo demistificare l’esercito, ma che — proprio vivendo a fondo la triste necessità della sua disciplina, del suo sacrificio, del destino egualmente terribile di uccidere e morire — è uno dei più forti scrittori che evochino la guerra e anche la vittoria con un alone di grande tristezza. (…)
Forse l’unico modo di essere vincitori è saper accettare la propria sconfitta, le proprie sconfitte, pur continuando a combatterle senza compiacersi di esse. Non c’è nulla di più pericoloso che ritenersi vincitori. Manes Sperber, uno scrittore austriaco che proveniva dall’ebraismo galiziano, che fu da giovane rivoluzionario comunista e poi uno dei primi implacabili accusatori degli orrori staliniani, diceva che chi si ritiene vincitore, chi ritiene di essere in una stabile e sicura relazione con la vittoria, diviene facilmente un «cocu de la victoire», un cornuto della vittoria stessa.
Related Articles
LA MODESTIA È LA VIRTÙ DELLA DEMOCRAZIA
CAMUS. “Un sistema creato da uomini che sanno di non sapere tutto” Su “Micromega” un testo del filosofo inedito in Italia
Democrazia senza partiti?
SENZA LA POLITICA A CACCIA DI NUOVE “FORME”. Nel suo saggio in uscita domani Marco Revelli analizza la crisi dei sistemi di rappresentanza e il futuro delle istituzioni
L’arte sublime di riconoscersi
Telemaco incontra il padre Ulisse ed esce dall’ignoranza Un motivo che unisce Genesi e Pirandello, Roth e Dante