by Sergio Segio | 31 Luglio 2013 5:57
Kafka sulla spiaggia di Haruki Murakami, Ehi, Kafka! di Charles Bukowski, Kafka in love di Jacqueline Raoul-Duval, Il gabinetto del dottor Kafka
di Francesco Permunian, Kafkaesque…
A scorrere i cataloghi editoriali degli ultimi tempi salta agli occhi un’attitudine, di autori più o meno famosi, a utilizzare il nome dello scrittore del
Processo nel titolo di opere tra loro le più lontane. Il marchio come richiamo. Ma perché proprio lui? Semisconosciuto in vita, Franz Kafka — grazie a una brillante operazione di marketing del devoto Max Brod che a neanche due mesi dalla sua morte già aveva firmato il primo contratto per quegli inediti destinati alle fiamme — diventa in pochi anni un caso letterario su cui si getteranno in molti. Con scopi diversi. Tutti preda però di una stessa inarginabile passione, di un insano impulso a ridisegnarlo a loro immagine e somiglianza.
C’è chi lo vuole sionista, chi socialista e chi anarchico, chi esistenzialista e chi invece protosurrealista, chi tedesco (e qui non sembrerebbero esserci dubbi, perché era in tedesco che scriveva) e chi ceco («Kafka si può spiegare solo da Praga», scrive nel ’48 Pavel Eisner, e in fondo non aveva neanche lui tutti i torti). È la scrittura stessa di Kafka a germinare tale proliferazione d’interventi, con la sua assenza di riferimenti precisi e una studiata ambiguità a cui la critica fin dall’inizio non sa trovare giuste risposte, favorendo l’arbitrio interpretativo. Si assiste così col tempo a uno strano fenomeno: l’opera con tanta cura sottratta agli inceneritori scompare dietro l’ombra sempre più ingombrante dell’autore.
E il primo era stato proprio Brod, gran mediatore fra culture nella Boemia del tramonto asburgico ma scrittore solo mediocre («un impresario che presenti la sua nuova star», lo definirà l’editore Kurt Wolff ricordando l’incontro con lui e Kafka del ’12). Quei manoscritti ricevuti in dono da Kafka o rinvenuti tra le sue carte lo ossessionano, quell’affascinante scrittura asciutta che lui non aveva mai avuto. Ma molto più lo affascina la possibilità di trasformare l’amico nel cavallo di Troia attraverso cui contrabbandare la propria visione del mondo. Nella sua biografia del ’37 lo paragona a «santi e fondatori di religioni », parla di «fede profonda». In un articolo dell’anno dopo lo definisce «un autentico profeta» e la sua opera «una continuazione del Libro di Giobbe», e intanto manipola impunemente i testi che pubblica.
Sono tutti pazzi per Kafka, perché per ciascuno è un Kafka diverso (spesso un Kafka mai esistito). Viene inventata una biografia, o magari solo un minuscolo frammento. Chi avrebbe avuto molto da dire, o non può più parlare (la sorella Ottla o Milena Jesenská, entrambe morte in un lager), o — come Dora Diamant, l’ultima compagna — sceglie la discrezione. Quando nel ’56 Klaus Wagenbach cerca a Praga materiali per una biografia dello scrittore, la città non offre molto: la sua famiglia è quasi tutta estinta, gli archivi ancora sigillati. Ma ci sono i memorialisti, più pericolosi ancora dei kafkologi di cui si lamenta Kundera. Come venditori di souvenir sui luoghi del martirio, anche loro smerciano reliquie di ricordi, spesso contraffatte.
E tra i più fantasiosi c’è l’ex anarchico Michal Mareš, che nel ’46 s’inventa una frequentazione di Kafka degli ambienti anarchici boemi, accennando anche a un fermo di polizia (senza riscontro però negli archivi). L’idea di un Kafka «di sinistra» attrae Wagenbach, che nel suo volume del ’58 pubblica un nuovo testo in cui Mareš si dilunga su un incontro dello scrittore con Jaroslav Hašek, anch’esso però smentito da più affidabili testimoni. L’intento di Mareš era chiaro: accreditare in Occidente il semisconosciuto autore dello Švejk, legandolo all’astro nascente di Kafka (ciò non ha impedito che poco tempo fa un esperto alquanto improvvisato potesse riesumare la storia farlocca). E non meno farlocchi — almeno per la gran parte — si presentano i Colloqui con Gustav Janouch, figli di quella stessa fame di testimonianze dirette: troppi incontri in quei pochi mesi, poco credibile l’immagine di Kafka che discetta sull’intero scibile umano (e, soprattutto, poco credibile che Janouch gli facesse visita in ufficio quando lui era ormai da mesi in malattia).
Si assiste per Kafka a un’ipertrofia del privato. Negli anni ’50 escono in rapida successione i diari, la Lettera al padre, i quaderni di appunti, le lettere a Milena e agli amici. Nel ’67 quelle a Felice Bauer. Una massa che sommerge e oscura i testi letterari, diventandone parte integrante (spesso privilegiata), anche se si scatenano bizzarre reazioni: Brod afferma di scrivere la sua biografia per correggere l’immagine troppo cupa dei Diari, Mareš e Janouch confessano di non leggerlo troppo Kafka, uno per puro disinteresse, l’altro per non perdere l’incanto del ricordo. L’industria culturale cavalca questo occultamento dell’opera dietro al personaggio. I testi talvolta difficili e minacciosi, che sembra «si avventino sul lettore come le locomotive sul pubblico nei recenti film tridimensionali» (Adorno), vengono edulcorati all’ombra della biografia: malattia, problemi con le donne, disagio nei rapporti familiari. A partire dall’Altro processo di Elias Canetti, la vita di Kafka diventa materiale per romanzi pseudobiografici, storie d’amore che si concludono irrimediabilmente nel sanatorio di Kierling. Il mediometraggio Kafka di Rybczynski è un’ossessione al femminile costruita quasi solo su fatti biografici, mentre la critica si era già sbizzarrita a vedere nel Processo un’«allegoria biologica», per cui i tre visitatori in nero rimandano a «tre sbocchi di sangue ».
La sua biografia diventa a tal punto un terreno che il lettore conosce ormai a menadito da ingenerare negli scrittori il ghiribizzo di smontarla, di riscriverla a fini narrativi. Si costruisce una vita postuma del personaggio-Kafka e del suo snaturato genitore. In un racconto di Landolfi (
Il babbo di Kafka), dinanzi al «futuro grande scrittore» appare un grosso ragno con la testa implorante del padre, che lui non esita a schiacciare. Nadine Gordimer pubblica un’astiosa lettera di Hermann al figlio, ormai entrambi morti, mentre in una commedia di Alan Bennett il genitore si presenta a un critico letterario chiedendo un trattamento migliore.
Ma è Kafka a spadroneggiare. Johannes Urzidil lo descrive giardiniere ottantenne a Long Island, Bohumil Hrabal lo fa svegliare in una pensione nella cupa Praga anni ’50, Philip Roth se lo ritrova insegnante in una scuola ebraica. Ma è ancora poco. Nella fantasia degli ultimissimi scrittori americani Kafka assume ormai i tratti del supereroe: in un racconto di David Gerrold, le radiazioni atomiche per debellare la tubercolosi lo hanno trasformato nell’Uomo- Insetto impegnato contro l’Uomo-Psiche (uno sdoppiato Freud), mentre in un altro, tratto dalla raccolta Kafkaesque
(2011), Kafka tiene di giorno una rubrica di posta per le lettrici, ma di notte è La Cornacchia, vendicatore solitario a caccia di malviventi, e soprattutto dello Scarafaggio Nero, che altri non è che il perfido Max Brod. Un racconto compreso in Kafka Americana (1999) insegue invece l’impossibile idillio: lo scrittore si è trasferito in Terra santa con Dora, è guarito e nel ’34 emigra a Hollywood, dove — come il povero Bertold Brecht delle ballate americane — lo troviamo improbabile sceneggiatore delle pellicole ottimistiche di Frank Capra.
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