Sulle colonie scontro tra Ue e Israele
GERUSALEMME — Un diplomatico israeliano lo definisce «un terremoto», una portavoce dell’Unione Europea prova a rasserenare: «Niente di nuovo». Eppure le parole di Benjamin Netanyahu sono quelle di chi reagisce a un sisma (in arrivo): «Non accetteremo alcun diktat esterno sui nostri confini — avverte il primo ministro —. Mi sarei aspettato da chi abbia veramente a cuore la pace e la stabilità in Medio Oriente che si dedicasse prima a risolvere problemi più urgenti come la guerra civile in Siria o la corsa dell’Iran alle armi atomiche».
Il documento che sta scuotendo i rapporti tra il governo israeliano e Bruxelles è stato approvato il 30 giugno ed entra in vigore fra pochi giorni. Indica le linee guida da seguire nei rapporti con Israele, fissa le regole per prestiti o finanziamenti da parte della Commissione. E per la prima volta prescrive che ogni intesa venga accompagnata da una clausola: quei soldi non possono finire a università, società, istituzioni al di là della Linea Verde, perché — precisa — gli insediamenti in Cisgiordania o a Gerusalemme Est non fanno parte dello Stato d’Israele. «L’Unione Europea ha chiarito più volte — continua il testo — che non riconoscerà cambiamenti ai confini precedenti al 1967, se non sono stati concordati dalle parti coinvolte nel processo di pace».
Maja Kocijancic, una portavoce dell’Unione, spiega che «l’approccio non è nuovo, le linee guida precisano un sistema già applicato e permetteranno a Israele e l’Ue di portare avanti le discussioni su accordi bilaterali in preparazione». Le regole riguardano i finanziamenti per progetti che partano l’anno prossimo e toccano le iniziative della Commissione non quelle dei ventotto Stati membri. «Un numero ridotto di casi», commenta Kocijancic. Sandra de Waele, che fa parte della delegazione Ue in Israele, ammette che il documento nasce anche «dalla frustrazione degli europei per le continue costruzioni negli insediamenti».
Proprio ieri il movimento Peace Now ha denunciato che il governo si prepara ad approvare mille nuovi alloggi nelle colonie. Il documento europeo è stato accolto come una sfida da Danny Dayan, ex leader del consiglio dei coloni, che alla radio dell’esercito israeliano ha cercato di ironizzare: «I nostri sono problemi da ricchi, siamo andati avanti quando eravamo in 40-50 mila al di là della Linea Verde e adesso siamo 700 mila, Gerusalemme Est compresa. Non abbiamo edificato gli insediamenti con gli aiuti dell’Unione e continueremo a farlo senza».
La clausola da inserire negli accordi preoccupa di più i funzionari del governo. «Dobbiamo decidere come agire da qui in avanti — dice uno di loro, anonimo, al quotidiano Haaretz —. Non siamo disposti a firmare intese con quella formula, questo potrebbe fermare la cooperazione economica, scientifica, culturale, sportiva universitaria». Anche Yair Lapid, ministro delle Finanze e che dovrebbe rappresentare i moderati nella coalizione di centro-destra, attacca la decisione: «Fa capire ai palestinesi che per loro non c’è un prezzo internazionale da pagare, se continuano a rifiutarsi di riprendere i negoziati. L’Autorità di Ramallah si convincerà che Israele finirà con il cedere alle pressioni economiche e diplomatiche».
Gli americani — racconta Haaretz — avrebbero avvertito Netanyahu che se gli sforzi di John Kerry, il segretario di Stato, per far ripartire il processo di pace dovessero fallire, l’Ue potrebbe decidere misure ancora più dure: l’etichetta identificativa per i prodotti che arrivano dagli insediamenti in Cisgiordania o l’obbligo del visto per i coloni che vogliono viaggiare in Europa.
Davide Frattini
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