Stato-mafia, no dei giudici a Mancino “Il processo deve restare a Palermo”

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PALERMO — «La falsa testimonianza contestata all’imputato Nicola Mancino non è un reato ministeriale», ma solo un «reato comune, commesso a molti anni di distanza dalla cessazione dell’incarico di governo». Con queste parole la Corte d’assise di Palermo si dichiara competente a giudicare l’ex ministro dell’Interno. E con lui, i nove imputati della trattativa Stato-mafia: il collegio presieduto da Alfredo Montalto ha rigettato infatti tutte le istanze di incompetenza presentate dagli avvocati difensori. Dunque, uomini delle istituzioni e capimafia saranno processati a Palermo, così come aveva stabilito il giudice dell’udienza preliminare Piergiorgio Morosini. Il dibattimento entrerà nel vivo già alla prossima udienza, il 26 settembre: in quell’occasione, la Procura illustrerà l’atto d’accusa e chiederà l’ammissione delle sue prove, fra queste c’è anche l’audizione di Giorgio Napolitano. I pm vogliono sentire il presidente della Repubblica su una lettera che l’anno scorso gli fu inviata dal suo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, deceduto qualche settimana dopo. In quella lettera, D’Ambrosio ribadiva la sua correttezza dopo le polemiche seguite alle intercettazioni con Mancino, ma esprimeva anche un timore sugli anni trascorsi al commissariato antimafia e al ministero della giustizia (‘89-‘92): il timore «di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi». Quali accordi? I pm vogliono chiedere a Napolitano se abbia ricevuto altre confidenze da D’Ambrosio. A settembre, la corte stabilirà se la citazione del capo dello Stato è ammissibile.
Al momento, i pm Di Matteo, Del Bene, Tartaglia e Teresi sono soddisfatti per l’ordinanza. Dice Nino Di Matteo: «È uno stimolo per vedere se soggetti che non sono ancora sotto processo abbiano commesso reati nella tragica stagione delle stragi». C’era grande attesa in Procura: una dichiarazione di incompetenza avrebbe significato uno stop anche per l’indagine bis sulla trattativa, che punta ad accertare il ruolo di ambienti deviati dei Servizi.
Adesso, la corte d’assise ribadisce che del dialogo Stato-mafia non devono occuparsi né i magistrati di Caltanissetta o di Firenze, meno che mai il tribunale dei ministri. Nell’ordinanza c’è spazio anche per una critica a Mancino: «Non si comprende quale concreto pregiudizio possa avere l’imputato dall’essere giudicato dalla corte di assise». Replica l’avvocato Massimo Krogh: «Rispetto l’opinione della corte, resto però convinto che il criterio funzionale dovrebbe prevalere su quello cronologico ». Ma i giudici hanno pochi dubbi: la falsa testimonianza contestata a Mancino ha una data, 24 febbraio 2012. Quel giorno, l’ex ministro depose al processo Mori e negò di aver saputo dal collega di governo Claudio Martelli del dialogo fra i carabinieri e Vito Ciancimino, nell’estate ’92.
Intanto, il gup Morosini non ha accolto la richiesta di archiviazione della Procura per un altro indagato eccellente, l’ex presidente del Senato Renato Schifani, sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa: il giudice ha fissato un’udienza per discutere del caso. Il 23 luglio, Morosini potrebbe disporre nuove indagini, oppure chiudere comunque il fascicolo.


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