by Sergio Segio | 30 Luglio 2013 16:00
Avevo scritto “Può capitare a chiunque”. Avevo scritto “i miei figli vivono sotto la soglia di povertà”. E il 25 gennaio 2012 sul giornale El Mundo avevo anche scritto “Sono in affitto”.
“Donna caucasica di 43 anni, giornalista, scrittrice e editrice. Altezza 169 cm, 60 chili, capelli rossi, occhi blu. Studi universitari, 25 anni di carriera giornalistica e di esperienza professionale in quattro giornali spagnoli, in quattro radio e in tre televisioni. Sei libri pubblicati di cui quattro romanzi. Tre sono stati premiati. Esperienza nell’organizzazione di redazioni, di équipe di lavoro, di campagne di comunicazione, di creazione di pagine web, di preparazione di stufato madrileno e di letture di Gil de Biedma. Capacità di scrittura, di discussione sulla letteratura, sulla politica, sull’economia, sulla cucina, sul sesso, sulla violenza, sull’editoria, sulla famiglia e le sue difficoltà, sulla disoccupazione, sulla criminalità, sul sindacalismo e i suoi problemi, in senso lato.
Si offre in affitto: per pensare, per occuparsi di una casa, anche se questo compito dovesse comprendere la raccolta di cavoli; per scrivere ogni genere di testo, di finzione o meno, compresa la corrispondenza. Compito che implica di rinunciare alla mia firma se fosse richiesto […]. Per portare a spasso gli animali o le persone, preferibilmente le persone. Questo servizio include la conversazione. Per preparare azioni di ubbidienza e di disubbidienza pubblica o privata.
Tariffa da contrattare. Se interessati, rivolgersi a [1]cristinasealquila@gmail.com[2]. Per coiti, fellatio, strip-tease e simili, astenersi”.
Tuttavia malgrado le mie precisazioni, la maggior parte delle risposte erano richieste di servizi sessuali, a volte molto fantasiosi. Ma quasi nessuno ha preso la mia proposta sul serio. Eppure era vera, così come tutto quello che scrivo e pubblico sul giornale. Era vera come la corrente tagliata un mese dopo, vera come le monete contate per comprare il latte per la colazione. Ma questo genere di cose bisogna averle vissute per capirle, per esserne consapevoli. Io credevo di esserlo eppure l’arrivo dell’avviso di sfratto ha avuto l’effetto di un blocco di ghiaccio e mi ha costretto ad agire. Nuda e terrorizzata, ma bisogna avere il coraggio di definire la paura, di formulare l’angoscia, di raccontare il proprio senso di colpa.
Mi chiamo Cristina Fallarás, la sfrattata che racconta, ed esattamente quattro anni prima della mia decisione di raccontare, in una mite mattina di novembre, alle 10, precisamente lunedì 17 novembre 2008, il direttore del giornale Adn [un quotidiano gratuito spagnolo che ha chiuso a dicembre del 2011], di cui ero la vicedirettrice, mi ha licenziato. Incinta di otto mesi. In quel momento la Spagna aveva due milioni e mezzo di disoccupati – all’epoca ci sembrava terribile, che ironia – e le previsioni più pessimiste ritenevano che questa crisi latente si sarebbe prolungata fino al 2010, forse fino all’inizio del 2011. Ma come, rispondevamo in coro, una crisi non può durare così a lungo! Il governo di José Luis Rodríguez Zapatero parlava di “primi germogli”, diceva che ormai avevamo toccato il fondo e che ben presto tutto sarebbe tornato a rifiorire. Poco dopo i socialisti avrebbero iniettato miliardi di euro nelle banche spagnole. Denaro pubblico.
Ed è così che è cominciato il mio sfratto. Con il licenziamento. Nel corso dello scorso novembre, El País ha licenziato 129 giornalisti[3]. Ricordo di aver pensato: carne da sfratto, venite, scendete, c’è posto qui. In quanto veterana, so quali sono le tappe successive. Prima fase, sono stimata, una grande professionista, ho le mie indennità, una discreta somma di denaro e il mio sussidio di disoccupazione. Ho almeno un anno e mezzo. Mi prendo due mesi per rifiatare e mandare giù il boccone amaro. La prima fase dura almeno un anno.
Seconda fase. Arrivo alla fine dei miei sussidi, non avremmo dovuto fare questo viaggio. Cominciamo a fare attenzione al cibo, ai vestiti. Bisogna dare la precedenza ai bambini, non devono rendersi conto di nulla. Devo fare qualcosa, uno studio di consulenza, una piccola impresa, un’agenzia di comunicazione. Investirò quello che mi rimane per garantire il futuro della mia famiglia. Politici maledetti. La seconda fase si estende per tutto il secondo anno.
Terza fase. Ragazzi, quest’anno niente vacanze. Caro, vendiamo la macchina. Maledizione, il denaro della disoccupazione non è durato così tanto. Adesso si comprano solo le marche meno care e riso a volontà per gli adulti ma niente vestiti. La piccola impresa non ha dato ancora nulla, ma come può diventare redditizia in pochi mesi? E se non fossi una buona professionista? E perché il mio compagno non trova lavoro? Forse si lascia troppo andare. Ho bisogno di tranquillanti. Se incrocio un politico per strada gli spacco la faccia. Oppure toccherà all’impiegato della mia banca. Se mi chiamano ancora per gli arretrati, esplodo. Ho bisogno di tranquillanti. La terza fase interessa i primi due terzi del terzo anno.
Quarta fase. Ho bisogno di tranquillanti più forti. Gli arretrati per l’affitto, per l’acqua e per il gas si accumulano. La banca non mi risponde più. Caro, la carne è per i bambini. Ho l’impressione di invecchiare alla velocità della luce! Non mi chiama più nessuno. Vado al supermercato, tu intanto distrai la cassiera mentre nascondo il dentifricio e qualche rasoio sotto il vestito. La quarta fase termina con lo sfratto. Quello che rimarrà di voi è ormai solo un dato statistico.
Continua.
L’articolo è stato pubblicato in spagnolo il 12 dicembre 2012 nella rivista online argentina Anfibia
Leggi la prima parte[4]
Traduzione di Andrea De Ritis
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