QUELLA MACCHIA SUI MILITARI

by Sergio Segio | 9 Luglio 2013 19:12

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 E APPARE adesso l’involontario promotore di un eccidio. Sottolineo involontario perché la sparatoria contro i manifestanti, mossi dai Fratelli musulmani, è stata probabilmente, come sostengono i comandi militari, una risposta obbligata. Una reazione inevitabile all’assalto di un folto gruppo di islamisti che tentava di entrare nella caserma della guardia repubblicana dove pensava si trovasse prigioniero l’ex presidente Morsi. Dunque una legittima difesa. Ma una difesa eccessiva, sciagurata, destinata a restare come una macchia sulla società militare e a mutare gli equilibri dello scontro. L’esercito faticherà d’ora in poi a presentarsi come una forza neutrale, nonostante le circostanze in cui è avvenuto il massacro.
I pretoriani egiziani affermano di essere una emanazione del popolo. I soldati sono per lo più dei coscritti, arrivano dalle più lontane sponde del Nilo o dalle periferie più povere; e gli ufficiali escono spesso dai ranghi e con i gradi conquistano una posizione sociale altrimenti irraggiungibile. L’esercito è quindi incapace di rivolgere i fucili contro il popolo. Questo lodevole, esaltato principio non è sempre stato rispettato. Le violazioni sono state tante. Dal 1952, anno della rivoluzione degli “ufficiali liberi” repubblicani, la privilegiata società militare è stata chiamata più volte a ripristinare l’ordine. Spesso la polizia (comunque comandata da un generale) le ha risparmiato un impegno diretto. Questo non sarebbe però accaduto ieri, anche se come vuole la tradizione l’esercito ha riversato la responsabilità sulla polizia.
Come prove del colpo di stato militare che denunciano da quando (il 3 luglio) il presidente Mohammed Morsi è stato destituito, i Fratelli musulmani mostrano in queste ore i morti e i feriti nella sparatoria davanti alla caserma della guardia repubblicana.
Dicono con fideistica certezza: eravamo in preghiera, alla vigilia del ramadan, e ci hanno presi a fucilate. Mentre i testimoni imparziali sostengono che la preghiera si svolgeva ad almeno due chilometri dal luogo della sparatoria. Le confuse immagini rese pubbliche dall’esercito, in cui si vedrebbe spuntare dalla massa umana qualche arma, non sono neppure prese in considerazione dai responsabili della Confraternita che hanno esortato alla «sollevazione». E in questa fase la rivolta è diretta apertamente contro l’esercito. Dalle denunce verbali di un colpo di stato ordito e attuato dai generali si è passati a una prova di forza contro l’esercito.
Al contrario delle masse religiose, i dirigenti della Confraternita non sono facili prede delle passioni. Sono abili calcolatori. In un anno di governo sono rimasti prigionieri dei loro dogmi; non sono riusciti a separare politica e religione; quindi sono stati incapaci di affrontare i problemi concreti. Ma nel passato, durante la lunga persecuzione subita, nei campi di concentramento, in prigione, nella semiclandestinità ed anche in parlamento confusi in partiti compiacenti, i capi dei Fratelli musulmani si sono dimostrati abili nel tessere compromessi. In questa nuovo capitolo della primavera araba, che li ha portati in prima fila sulla ribalta politica, hanno tuttavia un esiguo spazio di manovra. Sono presi tra due fuochi. Da un lato i “laici”, ai loro occhi spalleggiati dai militari, dall’altro i salafiti, raccolti nel partito Nour.
Quest’ultimo ha un ruolo importante nel nuovo capitolo della rivoluzione. Il Nour esprime un islamismo radicale. Ha partecipato
con successo alle elezioni, e i Fratelli musulmani, considerati dei moderati, sono i suoi diretti concorrenti. Il Nour si è schierato in un primo tempo con i “laici” di piazza Tahrir, quindi contro il presidente Morsi, ma quando è apparsa la candidatura a primo ministro di El Baradei, leader laico e liberale, si è opposto e ha abbandonato i negoziati, assumendo una posizione intransigente. Si è dunque accesa una gara a chi rappresenta la linea più dura tra le due grandi correnti dell’Islam egiziano. L’avversario di entrambe è diventato l’esercito che ha perduto il già compromesso privilegio di arbitro neutrale.
Non sarà facile ai militari recuperare il già scarso credito di cui usufruivano presso gli islamici. E dovranno esercitare con maggior rischi il loro ruolo di forza di interposizione. Gli scontri tra manifestanti laici e islamisti sono destinati a moltiplicarsi in un clima più acceso, ai limiti della guerra civile. Il fronte pro Morsi era afflitto, oltre che dalla perdita del potere, anche dalla pessima reputazione dovuta all’incapacità di governare dimostrata dal presidente destituito proprio per questo. I morti del Cairo hanno aggiunto a quel sentimento un’aureola di martirio, esaltata dall’intensità religiosa tipica del ramadan che sta per cominciare. Ed è una sensazione con un assurdo sapore di rivincita. O meglio di riscatto. È come se l’accusa ai militari, massacratori di islamisti, assolvesse questi ultimi dal fallimento nel governare.

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