Quattro alti funzionari rischiano il posto

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ROMA — Sono almeno quattro i funzionari del Viminale che rischiano di «saltare» per l’espulsione della signora Alma Shalabayeva. Anelli di quella catena di comando che il 27 maggio scorso decise di assecondare le richieste dell’ambasciatore kazako in Italia Andrian Yelemessov e quattro giorni dopo caricò la donna e la sua bimba di 6 anni su un jet privato disponendone il rimpatrio immediato. Non si placa l’ira del ministro Angelino Alfano contro chi «ha esposto me e l’intero governo, mettendoci in una situazione di gravissima difficoltà». La sua decisione dovrebbe arrivare entro due giorni, al termine dell’indagine affidata al capo della Polizia Alessandro Pansa. In cima alla lista c’è Giuseppe Procaccini, il capo di gabinetto dello stesso ministro che incontrò il diplomatico e attivò la procedura per il blitz nella villetta di Casal Palocco. A rischio anche la posizione del prefetto Alessandro Valeri, il responsabile della segreteria del capo della Polizia, così come quella del questore di Roma Fulvio Della Rocca. Nell’elenco potrebbe essere inserito il funzionario della prefettura che firmò il decreto di espulsione. E non solo. Perché proprio in queste ore nuovi dettagli su quanto accadde durante quei quattro giorni, alimentano ulteriori dubbi sulla versione ufficiale mostrando come molti altri funzionari fossero informati di quanto stava accadendo. E fanno emergere altre omissioni gravi, responsabilità tecniche e politiche nella decisione di consegnare in tempi record al governo kazako la moglie del dissidente Mukhtar Ablyazov e sua figlia Alma.

Il ruolo del capogabinetto

Il 27 maggio Procaccini riceve al Viminale l’ambasciatore kazako che sollecita l’arresto di Ablyazov e lo affida «per competenza» al prefetto Valeri. «Nessuno — ribadiscono al ministero dell’Interno — disse che si trattava di un dissidente, ci venne presentato come un pericoloso criminale». Inizialmente il diplomatico aveva chiesto di parlare con Alfano, ma gli era stato riferito che questo non era possibile e dunque aveva incontrato il capo di gabinetto. Possibile che quest’ultimo non abbia ritenuto di relazionare il ministro sui contenuti di quel colloquio? Alcune voci accreditano la possibilità che il capo di gabinetto gli abbia riferito genericamente che il governo kazako chiedeva collaborazione nella ricerca di un latitante. Alfano è categorico: «Fu Emma Bonino ad informarmi dell’avvenuta espulsione della signora Shalabayeva e io chiesi subito chiarimenti a Pansa». Siamo ormai al 3 giugno, Pansa sollecita una relazione del questore. Quelle tre pagine con undici allegati sono adesso il fulcro dell’indagine affidata al capo della Polizia. A Della Rocca si contesta la gestione del blitz, ma soprattutto la procedura che ha portato all’espulsione. Lui, nel dossier trasmesso ripercorre ogni fase della vicenda, partendo proprio dall’arrivo in questura dell’ambasciatore. Specifica che era stato il prefetto Valeri ad annunciargli la visita e poi evidenzia le note dell’Interpol che confermavano l’esistenza di un mandato di cattura internazionale contro Ablyazov. Ribadisce la regolarità del comportamento dei suoi uffici. Del resto l’input era partito direttamente dalla segreteria del capo della Polizia e dunque sarebbe stato impossibile per il questore non dare seguito a quanto veniva richiesto dal Dipartimento.

La segreteria del capo

Dunque è proprio in quelle stanze del Viminale che bisogna tornare per cercare di capire che cosa accadde in quelle ore. La mattina del 28 maggio Valeri riceve l’ambasciatore, così come gli aveva chiesto Procaccini, e fissa per lui un appuntamento in questura. Certamente ne parla con il vicecapo della Polizia Francesco Cirillo dal quale dipende l’Interpol. E anche l’allora capo della Polizia «reggente» Alessandro Marangoni viene informato sulla decisione di predisporre un blitz per la cattura di Ablyazov. Valeri specifica che la procedura è partita dal gabinetto del ministro e questo fa ritenere che non sia necessario parlarne direttamente con Alfano. Eppure quanto accade nei due giorni successivi ha risvolti incredibili. Il blitz fallisce perché Ablyazov non è in casa. Gli agenti portano via sua moglie, la accusano di avere documenti falsi e la trasferiscono nel centro di accoglienza di Ponte Galeria. Lei è terrorizzata, mostra il passaporto con il nome da nubile. Spiega di avere l’immunità diplomatica, ma è la Farnesina, con un fax poi allegato agli atti, a negare che goda di questo privilegio. In appena due giorni la procedura si chiude e scatta il rimpatrio.

Il jet privato

Ed ecco l’ulteriore anomalia di questa assurda vicenda. L’ufficio immigrazione predispone il rientro della signora e di sua figlia con un volo di linea che fa scalo a Mosca, scortate da quattro agenti. I diplomatici kazaki propongono però un’alternativa: utilizzare un volo diretto. La legge parla di «mezzo idoneo», la questura chiede il via libera al Dipartimento. E lo ottiene. Come è possibile che nessuno si sia insospettito di fronte alle pressioni dell’ambasciatore Yelemessov di procedere con la massima urgenza? Un jet privato non è certamente un «mezzo idoneo» al rimpatrio di una clandestina, eppure i vertici del Viminale hanno dato l’ok. «Appena informato — assicura Alfano — ho compiuto i passi necessari per avere la certezza che la signora fosse al sicuro. Il nostro scopo è farla tornare in Italia». Un obiettivo che ormai appare davvero difficile da raggiungere.


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