by Sergio Segio | 25 Luglio 2013 7:27
Dichiarare la fine ufficiale della Grande Crisi è un passo che probabilmente i responsabili delle istituzioni internazionali non si affretteranno a compiere. I rischi, soprattutto nei Paesi europei ad alto debito, sono ancora significativi. I segni di un cambiamento di stagione, però, ci sono. Ieri, quelli evidenziati dall’Indice dei responsabili degli acquisti hanno detto che l’area euro sta uscendo da sette trimestri di contrazione economica. L’indice settimanale elaborato dalla società di analisi Now-Casting, d’altra parte, racconta che l’eurozona è tornata a crescere dalla prima settimana di giugno, tra lo zero e lo 0,2% (0,09% venerdì scorso).
Soprattutto, l’indicazione più forte del nuovo clima è arrivata dagli Stati Uniti, quando il presidente della Fed, la banca centrale, Ben Bernanke, ha fatto sapere che la politica monetaria eccezionalmente espansiva degli ultimi tempi andrà a ridursi, probabilmente già negli ultimi mesi di quest’anno. Segno che l’economia americana è tornata a farcela senza stimoli «non convenzionali», smentendo le paure di chi — presidente Obama in testa — riteneva che i tagli automatici al bilancio federale scattati a inizio anno avrebbero approfondito la crisi. In realtà, le imprese — con più certezze sulle tasse e con nuove forme di approvvigionamento finanziario (bond societari e prestiti non bancari) — hanno ripreso a investire: c’è chi ritiene che il ritmo di crescita americano ritenuto new normal dopo la crisi, cioè parecchio ridimensionato rispetto ai primi Anni Duemila, possa non essere il 2% ma qualcosa di più. Nessuna crisi, però, una volta terminata fa tornare le cose come prima. A maggior ragione la più dura e lunga dagli Anni Trenta.
Innanzitutto, il ritmo della crescita globale sarà più basso di quello a cui eravamo abituati fino al 2007. Il Fondo monetario internazionale prevede per il 2013 una crescita mondiale del 3,1% e per il 2014 del 3,8%: nei quattro anni precedenti la crisi era stata attorno al 5%. Il calo dipende dal fatto che, in Occidente, una serie di bolle si sono sgonfiate e si stanno sgonfiando; che l’Europa è ancora in seria difficoltà, con debiti pubblici in crescita in molti Paesi; che gli Emergenti, in testa i Bric (Brasile, Russia, India, Cina), stanno rallentando e devono adeguare al nuovo mondo i vecchi paradigmi fondati sulle esportazioni. «Il modello economico sta cambiando», sostiene Marco Mazzucchelli, managing director della banca svizzera Julius Bär. A suo parere, questo nuovo ambiente economico potrebbe favorire le imprese europee, che a una crescita economica a basso ritmo sono più preparate delle concorrenti, soprattutto dei Paesi emergenti, e potranno anche beneficiare «di una riduzione dei costi delle materie prime e dell’energia e anche di qualche calo nominale dei salari». Sarà comunque una crescita meno impetuosa che in passato.
Non solo. Cinque anni di crisi hanno anche ridefinito le gerarchie tra Paesi. Gli Emergenti non sono andati in recessione e quindi si sono rafforzati rispetto alle economie tradizionalmente considerate ricche. Nel 2011, la Cina ha superato per Prodotto lordo il Giappone ed è diventata la seconda economia del pianeta (entro fine decennio supererà probabilmente quella degli Stati Uniti). Ma anche dal punto di vista strutturale il mondo si è riorientato e la perdita di egemonia occidentale ha subito un’accelerazione.
Ieri, il «Financial Times» riportava che Singapore è diventata un centro globale di gestione dei patrimoni quasi uguale per dimensioni alla Svizzera, in grado cioè di sfidare una preminenza consolidata da decenni. Qualcosa destinato a fare cambiare i punti di riferimento dati per scontati fino a pochi anni fa: la ricchezza si muove su una diversa mappa geografica. Uno studio che confronta lo stock di strade, aeroporti, centrali elettriche, palazzi d’abitazione, centri commerciali e altre strutture di 30 Paesi — il Global Built Asset Wealth Index — prevede che nel 2014 la Cina dovrebbe superare gli Stati Uniti come Paese con il maggiore patrimonio costruito: già alla fine del 2012, il valore americano era di 39.700 miliardi di dollari contro i 35.400 di quello cinese. In attesa di superare gli Stati Uniti per Prodotto lordo, la Cina inizia dunque a costruire primati. Già nel 2012, altro esempio, i cinesi sono diventati i maggiori viaggiatori per turismo del mondo, con oltre 82 milioni di persone che sono andate all’estero (quest’anno si prevede che saranno 90 milioni): segno che hanno deciso di consumare più di prima. In generale, si può dire che lo spostamento dell’asse dell’economia mondiale da Ovest verso l’Asia sia stato accelerato dalla crisi. Ciò, in Occidente, può essere letto in termini negativi, ma anche in positivo.
Prima di tutto, i Paesi emergenti fino a qualche anno fa erano soprattutto fabbriche (di merci in Cina, di servizi in India) o fornitori di materie prime (agricole il Brasile, energetiche la Russia): ora sono sempre più grandi mercati ai quali le imprese europee e americane possono puntare. Secondo, gli sbilanci dell’economia che hanno portato alla crisi del 2008 — tra tutti il più importante, la bilancia commerciale cinese immensamente positiva rispetto agli Stati Uniti — tenderanno a ridursi con il cambiamento di modello dei Paesi emergenti, nei quali dovranno crescere i consumi più delle esportazioni. La Grande Crisi ha cioè riportato a un nuovo livello, in teoria più sostenibile, gli equilibri economici e finanziari globali. I rischi non mancano, come sottolinea spesso il Fondo monetario: una nuova crisi del debito in Europa, non del tutto da escludersi, avrebbe ripercussioni negative globali, ridurrebbe i commerci e bloccherebbe i canali finanziari, quasi certamente provocando altre recessioni. Il sentimento globale, però, si sta orientando nella direzione opposta.
A questo punto, per Paesi e imprese si tratta di sapersi adeguare alla globalizzazione-post-recessione. O, se si vuole, alla fine — non ancora ufficiale — della Grande Crisi. E di arrivarci in forma. Purtroppo, il ventre molle dell’economia mondiale sta nell’Europa del Sud, Italia compresa: lì i debiti pubblici restano alti, le riforme arrancano, il cambiamento trova grandi opposizioni e la recessione continua. Gettare un occhio al resto del mondo tornato a crescere non sarebbe male.
Danilo Taino
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