Ora ci spiano con la “fingerprint”: addio al tracciamento coi cookie

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IL PANICO da Datagate s’è diffuso a macchia d’olio. La sindrome del Grande fratello, d’altronde, ci mette poco a impensierire anche chi, in tutta franchezza, poco avrebbe da preoccuparsi. In fondo non sono tanto gli spioni di Stato ad aver bisogno di ficcare il naso negli affari nostri. Quanto piuttosto chi sulla Rete fa profumatissimi affari. Le nostre attività quotidiane – quali siti frequentiamo, cosa cerchiamo e cosa compriamo online, dove ci informiamo, quali video guardiamo e via elencando – sono utili in quanto ci definiscono anzitutto come potenziali clienti. E dunque come obiettivo di campagne pubblicitarie mirate e chirurgiche. Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio eCommerce Netcomm del Politecnico di Milano, l’ecommerce italiano vale 11,2 miliardi di euro, in crescita del 17 per cento. La torta, insomma, è succosa.

Addio cookie.
Ieri e oggi, per capire cosa ci piace acquistare e consultare online c’erano e ci sono i cookie. Anche detti web cookie o tracking cookie, sono comandi automatici che tengono traccia delle nostre sessioni web, memorizzano informazioni precise come le preferenze o ciò che abbiamo infilato nei nostri “carrelli della spesa”. Funzionano come una partita di tennis fra browser e server: ogni volta che accediamo a una certa sezione di un sito internet, o ci torniamo in un’altra sessione di navigazione, inizia il dialogo alle nostre spalle. Per ottimizzare la nostra navigazione ma anche dragare statistiche, numeri, dati e informazioni.
Il fatto è che i cookie, anche se magari la maggioranza di noi non se ne rende conto e naviga beatamente senza porsi problemi di questo tipo, sono facilmente individuabili, con alcuni software precisi, oltre che disattivabili attraverso le impostazioni dei vari browser. Fra l’altro, il Garante per la privacy presieduto da Antonello Soro ha da poco annunciato nel corso della sua relazione annuale di aver avviato delle consultazioni per regolarne l’uso. Insomma, da quel punto di vista possiamo almeno tentare di proteggerci. E spesso ci si riesce, anche se non sarà poi semplicissimo caricare e frequentare alcuni siti: gireranno lenti, perché mancheranno alcune istruzioni ogni volta da ricaricare, e saremo invitati spesso e volentieri a riattivare i biscotti magici. Senza contare che una porzione sempre più abbondante di traffico web passa ormai dai dispositivi mobili, dove il via libera ai cookie è disattivato di default (bisogna accettarli sui vari device, spesso con procedure non proprio lineari). E in ogni caso non su tutti i dispositivi è possibile farlo. Come fare, dunque, per superare ostacoli del genere e bypassare le antipatiche ritrosie degli utenti? Facile: tramite la fingerprint.

L’impronta digitale del computer.
Componenti aggiuntive del browser e plugin come Flash e Java, sistema operativo, dimensioni dello schermo, software installati, zona geografica e oraria, font e alfabeto utilizzato e altre caratteristiche: tutti questi elementi vengono messi insieme dai siti internet visitati – e da alcune tecnologie alle loro spalle – in base ai dati che trasmettiamo loro mentre siamo connessi. E vanno a confezionare più robuste e raffinate tecnologie di tracking in grado di funzionare come vere e proprie impronte digitali del nostro computer nel flusso continuo delle navigazioni web. Irripetibili, o almeno difficilmente confondibili, se ne infischiano dei cookie e consentono a chi gestisce le campagne di advertising online, tramite società specializzate, di indirizzarci annunci precisi. Un po’ come disegnare il ritratto di una persona mettendo insieme i pezzi: baffi, capelli castani, occhi verdi, altezza 173 centimetri e così via. Elementi che da soli valgono poco ma che insieme costruiscono un’immagine precisa.
D’altronde, le frontiere della pubblicità personalizzata avanzano. E non è solo merito o colpa dei cookie. Anche l’intera macchina con buona parte delle sue caratteristiche (o i dispositivi mobili, quando abilitati) comunica chi è e, soprattutto, le preferenze di chi c’è dietro. Ovviamente ai siti che sanno leggere questi dati dal vostro browser. Senza contare che, mentre possiamo cancellare o disabilitare i cookie, oppure accettarne solo di un certo tipo, è assai meno frequente compiere delle modifiche all’hardware, un po’ meno ai software. Poco male, per i segugi del web marketing: personalizzare e cambiare, in linea di massima, non serve a confonderci nella folla. Ma a rendere il nostro identikit ancora più definito. E’ possibile effettuare e un check-up al browser su Panopticlick per farsi un’idea di quanto si comunica senza saperlo. O quasi.Dalle browser fingerprint – e dal loro incrocio con altri database, non bisogna mai dimenticare l’intreccio di precisione dei colossi che custodiscono i big data della Rete – si dipana dunque una serie infinita di possibilità e strumenti promozionali. Basti pensare, per esempio, alla tecnologia messa a punto da una startup californiana, la AdStack. Questa società consente ai propri clienti di fare del comune email marketing a certe fasce di utenti ben definite accavallando indirizzi e altri dati. Salvo, tuttavia, caricare i contenuti della posta solo al momento dell’apertura o della visualizzazione, e dunque dando l’opportunità a chi fa pubblicità di aggiornare la comunicazione in alcuni millisecondi, rendendola ancora più appropriata in base all’orario in cui viene effettivamente letta. Evan Reiser è Ceo e fondatore del gruppo, che ha avviato le attività nel 2011. Stando a quanto ha dichiarato a Forbes, si dice in grado di identificare, grazie alla più garantita strategia delle fingerprint, il 98 per cento degli utenti online: “Disponiamo  di dati su decine di milioni di persone” ha detto. Per poi tentare di spiegare il suo scivoloso lavoro: “C’è un confine sottile fra le cose accettabili e quelle inquietanti. E per qualsiasi cosa io definisca come una grande tecnologia posso garantire che c’è qualcuno che al contrario sostiene che è orribile e che non dovremmo comportarci così. Credo che il tracking, di per sé stesso, non sia buono né cattivo. È l’uso che se ne fa a essere importante. La mia filosofia è che se sei in grado di rendere il contenuto più rilevante, e a rendere quindi la pubblicità più rilevante, questa somiglierà sempre meno allo spam e sempre più a dei contenuti veri e propri”. Costo del servizio, chiave della pubblicità del futuro sul web? Da mille a 50mila dollari, a seconda del numero delle e-mail spedite. Ma come la AdStack, là fuori, ci sono altre migliaia di società specializzate nel ritagliare le nostre esperienze identificandoci tramite le tecnologie che usiamo. Trasformandole in oro.


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