Nei quartieri disabitati di Detroit la prima metropoli che ha fatto crac

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DETROIT — Jefferson North, il bianchissimo stabilimento nella parte nord-orientale della città dove si producono le Jeep Grand Cherokee della Chrysler, lavora a pieno ritmo. Nasce da qui «imported from Detroit», l’orgogliosa campagna pubblicitaria lanciata anni fa dal gruppo italoamericano guidato da Sergio Marchionne. Ma quello stabilimento è l’unico attivo nell’area urbana della città. Gli altri impianti della rinascita dell’industria Usa dell’auto — Ford, Chrysler e General Motors — sono fuori dal perimetro di Detroit, non contribuiscono al suo esangue bilancio.

Anche questo spiega il perché della bancarotta — la prima di una grande metropoli nella storia americana — lungamente annunciata in una città segnata da trasformazioni del suo tessuto produttivo e sociale che l’hanno letteralmente svuotata: dai quasi due milioni di abitanti del 1950 ai 700 mila attuali. La superficie di Detroit è sempre la stessa, sterminata: 140 miglia quadrate sulle quali si alternano quartieri ancora abitati ma poverissimi, zone totalmente abbandonate con l’erba che cresce ovunque sui marciapiede e tra le auto parcheggiate da anni. Ma anche borghi che rinascono per iniziativa di comunità di professionisti e società non profit che risanano edifici, attirano boutique e negozi di specialità alimentari, cercano di riportare in città il ceto medio e le famiglie dei manager emigrate nei sobborghi e nelle verdissime comunità che sorgono sulle rive dei laghi a nord di Detroit.

Andare da Jefferson North fino al vecchio centro degli uffici municipali significa attraversare l’inferno di interi isolati di case unifamiliari abbandonate e bruciate ma anche quartieri della speranza come quello di Woodward Avenue, rinato attorno a due società non automobilistiche di successo, Compuware e Quicken Loans: zone spettrali e parchi con spiagge finte e orchestrine jazz che suonano sotto gli spruzzi degli umidificatori, nella calura estiva.

Ma l’immagine che ti resta attaccata addosso è quella degli incendi dolosi. Che hanno anch’essi qualcosa a che fare con la decisione di imporre una svolta drammatica all’amministrazione della città: vedere una casa che brucia nella notte è uno dei passatempi preferiti dalle bande giovanili di Detroit. Che non lo percepiscono più nemmeno come un reato. In questa città con più di 80 mila case abbandonate gli incendi sono oltre cinquemila l’anno, 14 al giorno. Polizia e pompieri, a ranghi ridotti per i tagli di bilancio, riescono a fare qualche indagine solo in un caso su cinque.

Uno stato d’abbandono cavalcato dal governatore del Michigan, Rick Snyder nel momento in cui annuncia lo stato d’emergenza: «La città era paralizzata da troppo tempo, senza più risorse, coi servizi ridotti all’osso. Nel resto d’America, in media, quando chiami la polizia, arriva dopo 11 minuti. A Detroit ce ne vogliono 58. Adesso potremo mettere un punto fermo. Ci saranno sacrifici, certo, ma è anche l’occasione per un nuovo inizio, per restituire i servizi pubblici a una città che vuole rinascere».

Sì ma a qualche prezzo? Cosa succederà adesso? Nessuno lo sa con precisione. Perché è già scontro tra le parti, con conseguenze imprevedibili: gli avvocati del sindacato hanno ottenuto un’ingiunzione a sospendere la procedura di bancarotta, considerata incostituzionale, da un giudice dello Stato il cui pronunciamento è stato, però, subito impugnato dal procuratore generale del Michigan. Insomma, un caso senza precedenti per la sua natura ma anche per le dimensioni (un buco di 18 miliardi di dollari nei conti della città): è evidente, in ogni caso, che ci saranno sacrifici pesanti per i pensionati del pubblico impiego attuali e, soprattutto, futuri. Basta vedere quello che è accaduto nei casi precedenti a cominciare dal primo, quello di Vallejo, la città californiana di 115 mila abitanti che Osby Davis, un sindaco democratico e nero, ha tirato fuori dalla bancarotta con una cura durissima a base di contratti del pubblico impiego cancellati dal giudice fallimentare e ricostruiti su nuove basi, tagli delle pensioni e della spesa sanitaria, cancellazione degli scatti d’anzianità e degli straordinari per i dipendenti pubblici.

Ma Detroit è un’altra cosa per le sue dimensioni (fino a non molti anni fa era la quarta città d’America) e la sua storia di culla del movimento operaio e delle organizzazioni sindacali. Una situazione estremamente intricata che rischia di diventare esplosiva se crescerà la protesta mentre gli avvocati delle union cercheranno di dimostrare in tribunale che non ci sono gli estremi per dichiarare bancarotta (il cosiddetto Chapter 9) perché Detroit non è (ancora) insolvente.

Sullo sfondo il timore di uno scontro politico a sfondo razziale, col governatore, repubblicano e bianco, sospettato di voler mettere alle corde la metropoli democratica e all’80 per cento nera. Snyder ha cercato di evitare questo rischio muovendosi in modo molto graduale: non ha mai criticato apertamente il sindaco (nero) di Detroit, l’ex campione di basket Dave Bing e quando, quattro mesi fa, ha deciso di commissariare la città, ha cercato di farlo col consenso del primo cittadino e ha scelto per l’operazione un professionista: Kevyn Orr, anch’egli di colore. Il quale ieri ha spiegato la sua verità amara ai cittadini e alla stampa con alle spalle un sindaco taciturno e dolente che però, alla fine, non si è tirato indietro: «Ho fatto di tutto per evitare che si arrivasse a questo, ma ormai ci siamo, dobbiamo affrontare l’amara realtà per cercare di risorgere».

La sua idea era quella di fare di Detroit una città «a macchia di leopardo», coi quartieri oggi abbandonati rasi al suolo e trasformati in parchi o utilizzati per nuove attività produttive. In questo modo il comune non dovrebbe distribuire i servizi — acqua, luce, polizia pompieri — in un’area troppo vasta. Ma servirebbero enormi investimenti che nessuno è in grado di sostenere. In passato i grandi progetti infrastrutturali di Detroit sono stati finanziati anche dai fondi pensione del pubblico impiego. Poi crisi e degrado hanno azzerato il valore di quegli investimenti. Anche per questo — e non solo per l’elevato numero di dipendenti pubblici e i trattamenti generosi di cui godono pompieri e poliziotti — oggi quei fondi fanno acqua da tutte le parti. E la città che fin qui li ha integrati con immissioni di denaro pubblico sempre più massicce, ora smetterà di farlo. Con conseguenze che per molti saranno drammatiche.

Massimo Gaggi


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