Natuzzi taglia 1700 posti la Spoon River senza fine dell’industria italiana
ROMA — Dalla siderurgia agli elettrodomestici, dall’alluminio ai divani: l’industria italiana continua a perdere pezzi. Alla miriade di piccole aziende che giorno dopo giorno gettano la spugna si aggiunge il lungo elenco dei grandi marchi in crisi. Nella lista delle ristrutturazioni feroci adesso c’è anche la Natuzzi: l’azienda pugliese leader dei divani ha annunciato che i 1.726 dipendenti in cassa integrazione, ad ottobre, andranno in mobilità. L’ennesima brutta notizia per un settore, quello del mobile imbottito, che nell’ampio distretto fra la Puglia e la Basilicata, negli ultimi dieci anni è passato da 14 mila ai 6 mila lavoratori. «Scelta obbligata — dice l’azienda — per salvare quello che resta» (2.789 posti di lavoro): i tagli sarebbero «inevitabili » visto il crollo della domanda, i costi di produzione troppo elevati e la concorrenza sleale di chi lavora in nero. «Piano inaccettabile » rispondono i sindacati che criticano «la fallimentare dirigenza del gruppo». Cgil, Cisl e Uil, in sciopero da ieri, chiedono l’immediata apertura di un tavolo di crisi a Palazzo Chigi.
Ma Natuzzi, purtroppo, è un nome fra tanti altri. Settori interi dell’industria italiana barcollano sotto lo schiaffo della crisi. E’ in pieno corso la vertenza Indesit: il “re” della lavatrice che per decenni ha fatto di Fabriano un’area felice e che ora vuole trasferire parte della produzione in Turchia e Polonia. Il piano di ristrutturazione presenta 1425 esuberi: domani si aprirà un tavolo al ministero dello Sviluppo economico. Sempre nel “bianco”
è in crisi la Whirlpool, che chiuderà lo stabilimento di Spini di Gardolo, a nord di Trento, che dà lavoro a 450 persone.
Cambiando settore il quadro non migliora. E’ in stallo la trattativa Alcoa: saltata la vendita dello stabilimento di Portovesme alla Klesch sembra ancor più difficile la ricerca di un acquirente: i forni sono chiusi, fatta salva l’attività di manutenzione e i 501 dipendenti diretti più 308 dell’indotto
sono in cassa integrazione. In crisi anche le acciaierie di Terni, abbandonate dai tedeschi della ThyssenKrupp, rilevate dai finlandesi della Outokumpu e bloccate dai vertici di Bruxelles. Saltando dall’alluminio ai pneumatici, qualche spiraglio si è aperto per i 950 dipendenti del polo barese della Bridgestone: la trattativa è aperta, ma ci sono prospettive sia per l’aumento di produzione che per le uscite incentivate.
Nella difficile estate dell’industria italiana domina la crisi Fiat e resta da trovare il futuro di Termini Imerese, dove la cassa integrazione scade a fine anno. E’ in crisi la Berco: proprietaria dell’azienda che produce cingoli per macchine è ancora la Thyssen, che ha annunciato un piano con 611 esuberi. Da una discesa all’altra: nei servizi inciampa il grande spedizioniere Tnt che ha aperto la procedura di mobilità a livello nazionale per 854 lavoratori. Nel calzaturiero è in affanno anche Geox, che ha annunciato 90 esuberi a Montebelluna. E alla dolente lista manca la miriade di piccole aziende edili chiuse dal 2008 ad oggi che: secondo i calcoli dell’osservatorio Ance, finora hanno mandato a casa — compreso l’indotto — 690 mila dipendenti, corrispondenti all’intera città di Palermo. Per Salvatore Barone, coordinatore del dipartimento industria della Cgil ci può salvare solo «un’ampia strategia industriale, ora assente ». «Vanno rivisti i costi dell’energia, va incentivata l’innovazione di prodotto, di mercato e di produzione — precisa — anche con interventi di carattere straordinario, come gli investimenti pubblici attraverso la Cassa Depositi e Prestiti».
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