Massimo Cacciari. Il concetto di sinistra

by Sergio Segio | 31 Luglio 2013 6:05

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VENEZIA. Sinistra è una parola maldestra. I giochi con le parole possono essere rivelatori. La parola sinistra è segnata dal marchio dell’insufficienza, condannata da un destino inscritto nella sua stessa etimologia latina: sinisteritas significa inettitudine, goffaggine. Quando Massimo Cacciari aprì con queste considerazioni uno “scandaloso” convegno romano su “Il concetto di sinistra”, la sua ironia filologica sembrò del tutto fuori luogo: era il 1981, l’era Reagan-Thatcher era all’alba del suo cinico vigore, e di sinistra sembrava esserci un gran bisogno nel mondo.
Trent’anni dopo il filosofo veneziano non ha cambiato idea, anzi è la storia che sembra aver dato ragione alle sue profezie lessicali: se la destra si è destreggiata bene o male, la sinistra appare sempre più sinistrata.
Al punto che «quella parola non ci serve più, è disossata, desemantizzata, continuare a usarla è dannoso, offusca la visione della realtà».
Eppure, professore, nonostante quella maledizione etimologica, la parola sinistra è sopravvissuta a molte altre etichette della politica, come se lo spiega?
«Tornare alla radice latina della parola sinistra, in quel convegno, fu più che altro un divertissement, ma la provocazione serviva per dimostrare che le parole non sono eterne o neutrali nel loro significato. È vero, la parola sinistra non è scomparsa, anzi ha rimpiazzato altri aggettivi decaduti nelle denominazioni di alcuni partiti, ma è diventata sempre più porosa. Nel senso che assorbe ogni giorno significati e succhi diversi, è una parola instabile e in definitiva inservibile».
Ma quando lei la dichiarò tale, era decisamente più solida, no?
«Indicava qualcosa di storicamente circoscritto. Già allora non si dicevano tutti “di sinistra”, a sinistra. Sinistra indicava socialdemocrazia, welfare postkeynesiano, ridistribuzione del reddito. Gli altri erano comunisti, era difficile che un comunista si definisse “di sinistra”. La parola sinistra, allora, aveva un forte contenuto politico, era una distinzione riconoscibile anche sul piano valoriale, ma tutto questo perché esisteva la destra, c’erano i non-democratici, c’erano i fascisti. Però, già allora, chi voleva capire sapeva che quella distinzione non era universale, era legata a una stagione della storia e stava ormai evaporando con essa ».
Per quale motivo?
«L’opposizione destra-sinistra è lineare, bidimensionale. Se manca uno dei due termini crolla anche l’altro. Gli ultimi avversari di destra furono appunto Reagan e Thatcher, una destra mondiale agguerrita e molto chiara nei suoi princìpi e molto innovatrice nelle sue tecniche. Fu quella l’ultima grande occasione di “fare qualcosa di sinistra”, ma bisognava coglierla
in modo nuovo, rinunciare al keynesismo, prepararsi al futuro, nei programmi e negli strumenti. Invece la risposta fu conservatrice: rinforzare le basi storiche e ideologiche di una sinistra che si oppone ai “reazionari”. Ma per la scienza politica, reazionario è chi vuole riportare indietro la ruota della storia a prima della rivoluzione francese. E né Thatcher né Reagan né nessun altro che si vedesse in giro proponeva di tornare al Re Sole».
In quel convegno Paolo Flores d’Arcais, pur proponendone la rifondazione concettuale, difendeva la parola sinistra come “stenogramma” dei valori della Rivoluzione francese. Non può essere ancora così?
«Ma dopo la Rivoluzione francese tutta la politica, non solo la sinistra, ha dovuto muoversi nello spazio prospettico definito da quelle parole: uguaglianza libertà fratellanza. Però per ciascuna è stato necessario chiedersi: quale? In che modo? Eguaglianza come opportunità o come diritto, come punto di partenza o di arrivo? Le risposte sono state diverse, storicamente non tutte definibili “di sinistra”».
Neppure Bobbio, dieci anni dopo, la convinse a recuperare il concetto?
«Nel suo sforzo di definire le basi di un “tipo ideale” della sinistra, Bobbio ricorse all’idea guida di uguaglianza. Ma era una base disperatamente povera, non sorreggeva una vera dualità, una vera opposizione. Chi mai oggi promuove la diseguaglianza? Voglio dire, chi la propone
apertamente come programma politico? È chiaro che la diseguaglianza esiste, anzi cresce, ma non è un’ideologia, è un fatto. La diseguaglianza non è il programma odioso di un avversario riconoscibile, semmai è la forma che ha assunto la globalizzazione, è l’anonimo che ha preso il volto dello stato di natura, dell’inevitabile, e nessuno se lo intesta. Se poi volete dire che combattere le ineguaglianze è necessario, siamo d’accordo; se volete dire che questo è il senso dell’essere di sinistra, fate pure, ma siamo ancora all’inizio, non abbiamo ancora definito niente. Come
si superano le diseguaglianze? Con quali strumenti, istituzioni, aggregazioni politiche?»
Trent’anni fa lei si chiedeva se avesse senso tentare di recuperare la parola sinistra. Ha una risposta oggi?
«Sì: negativa. Quello che ha senso oggi è ridefinire una politica di cambiamento. Le soluzioni non si collocano più a un preciso punto della scala che va da destra a sinistra. Le soluzioni non le trovi nell’apposita casella, le devi cercare nelle trasgressioni della topografia politica, nell’uscita “catastrofica” dal piano bidimensionale. L’elettrone, ci dice la scienza, non ha un luogo, è un fascio di onde. Così deve essere il pensiero politico. Io cominciai a dialogare con gli intellettuali di destra trent’anni fa. Mi maledirono per questo. Urgente è il fare. Rivolgersi ai problemi. Chiedersi cosa è Europa, cosa è nazione, come si affronta la globalizzazione. Non c’è un prontuario di sinistra per queste cose, perché la disposizione concettuale destra- sinistra è arcaica, lineare, mentre il mondo oggi è multidimensionale ».
Soluzioni pragmatiche. E i valori? E l’etica?
«I valori in politica sono i buoni progetti. Che la politica possa rendere giusto il mondo lo raccontano nei comizi. Se me lo chiede, per me il mondo è un inferno e lo resterà fino a quando ci sarà un solo uomo che muore di fame. Ma se faccio politica il mio compito è cercare soluzioni praticabili e compatibili per far morire di fame un po’ meno persone. Politica è il calculemus di Leibnitz».
Ma l’insieme di questi calcoli pragmatici dovrà pure avere una coerenza, e quella coerenza non può avere un nome?
«E perché deve averlo? Se il mio progetto politico ha coerenza, bene, chiamalo Geppetto o Tonino, o Partito Riformista, non è quello che importa… In ogni caso, se vuoi fare una cosa nuova devi dire una cosa nuova, o il tuo linguaggio oscurerà la realtà. A me hanno insegnato che una parola ha senso all’interno di una frase, non da sola. Sinistra era una parola della frase keynesiana, democratico-antifascista, che non ci serve più, non ci sono più i fascisti, siamo tutti democratici. Se insisto a dire sinistra, mi porto dietro una dicotomia che è segnata dalla storia, mi ancoro a un passato. Chi si dice “di sinistra” oggi è un perfetto conservatore, si nasconde dietro i simulacri. È la parola rifugio degli apparati, so bene perché la usano, perché non hanno altro in zucca, è inerzia pura».
E il militante? Lui ha un’esigenza diversa, e sincera, di identità, di autoriconoscimento.
«Il militante capirebbe benissimo. Il suo scopo è cambiare il mondo, non definire se stesso. Definirsi con una parola porosa e impoverita lo danneggia, lo lascia con una bandierina da sventolare e qualche comportamento virtuoso spicciolo che non è per nulla identitario. Forse qualcuno a destra sostiene che bisogna inquinare o sprecare le risorse della terra? ».
Ma il militante “di sinistra” continua a chiedersi: cosa sono? E perché sono quello che sono?
«Essere è fare, politica è actuositas. I veri rivoluzionari hanno sempre pensato questo: io sono quel che faccio. Il viceversa, faccio perché sono, faccio quello che sono, è la radice dei totalitarismi».

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