Martini, testimone dell’ascolto

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È la sua ultima notte a Gerusalemme. Avrebbe voluto concludere lì il suo percorso terreno, nella città santa. La città dove le tre religioni monoteiste hanno trovato luogo di confronto e dialogo. E lui, il cardinal Martini, uomo del dialogo, aveva scelto di vivere i suoi ultimi giorni proprio in quel luogo. Ma la malattia lo costringe a tornare in Italia.
Da quella notte prende il via lo spettacolo Martini: il Cardinale e gli altri di Marco Garzonio, con la regia di Felice Cappa: «Un viaggio a ritroso nel tempo e nei ricordi che si affastellano, caotici e calmi, nel racconto di una vita», osserva Paolo Bonacelli che, da stasera al 7 luglio, ne veste i panni al Festival di Spoleto. Una performance complessa, promossa dalla Fondazione Corriere della Sera con il festival, prodotta da Crt Artificio Milano, che inaugura un nuovo suggestivo spazio: l’antico Chiostro di San Gregorio.
«Un racconto a due voci — spiega Garzonio —. Un lui e una lei, così come sono racchiusi nel suo doppio nome: Carlo, guerriero germanico risoluto, Maria, perché alla protezione della Madonna viene affidato. Lui è Martini, Lei (interpretata da Lucilla Giagnoni) potrebbe essere l’anima, ma anche una storica, oppure un’allieva, o semplicemente una giornalista che gli pone delle domande».
Il testo si snoda nei temi caldi della contemporaneità: la violenza e il terrorismo, la solitudine nelle metropoli, la corruzione, la crisi economica. «Tutti i grumi della nostra cosiddetta società civile — continua Garzonio — che il cardinale ha affrontato, certe volte preconizzato, nel suo cammino pastorale sempre stato caratterizzato dall’ascolto dell’altro. Diceva “Io ascolto sempre il non credente che è in me”».
Ragiona Bonacelli: «Considerarlo solo un uomo di chiesa sarebbe riduttivo. Stiamo parlando di uomo che, al di là delle sue convinzioni religiose, ha prima di tutto cercato di capire il mondo in cui viveva, esplorandolo per coglierne le contraddizioni, per entrare in contatto con chi la pensava diversamente da lui. Ciò lo ha indotto ad assumere comportamenti considerati anche anticonformisti».
Per esempio? «Per esempio — ricorda l’attore — le sue ripetute visite a San Vittore a colloquio con i terroristi, sollevarono qualche polemica. Ma l’arcivescovo di Milano era convinto che solo attraverso il dialogo si potessero comprendere i motivi che spingono certe persone persino a compiere atti efferati: non ci si può limitare a condannare, occorre interrogarsi sul perché».
Un personaggio scomodo per la Chiesa di Roma? «Certamente! E non è un caso la continuità che si è verificata tra lui e papa Francesco — assicura Garzonio —. Definiva la Chiesa indietro di duecento anni e suscitava preoccupazione perché era uno che coltivava il dubbio. Dunque, gli ambienti ecclesiastici romani non gradivano la sua problematicità e l’ostilità nei suoi confronti non si fece attendere. Celebre la vignetta di un umorista ciellino che ritrae un vescovo sotto la scritta Martini&Rossi, con l’aggiunta di falce e martello».
Al centro dell’azione scenica la parola, che in teatro assume il valore di testimonianza viva: «Data la caratura del personaggio, con cui è ancora presto fare i conti, più che uno spettacolo teatrale su di lui — sottolinea Cappa — è un’evocazione. Un rito laico dove non ci sono attori e spettatori, ma persone che condividono una serie di domande cui dare delle risposte».
Oltre alla messinscena, un convegno (7 luglio ore 11, Chiostro di San Gregorio), cui partecipano don Damiano Modena, Maris Martini, sorella del cardinale e Ignazio Marino, sindaco di Roma.
Conclude Bonacelli, che ha l’arduo compito di incarnare una figura tanto complessa: «Credo che il cardinale fosse un tipo poco allineato, e quindi un uomo solo nella sua battaglia per la tolleranza. Tutte le sue azioni pastorali conducevano a interpretare le ragioni degli altri. E la sua profonda umanità rappresenta per me, che sono un laico, uno stimolo a pormi anch’io delle domande».


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Norman Manea ha intensamente vissuto i suoi libri prima di scriverli e ha rivissuto non una ma molte volte la sua vita scrivendoli. Chi ha letto Il ritorno dell’huligano (2003), la sua ormai celebre autobiografia, conosce tutti i dettagli: una storia che comincia con la deportazione, in quanto ebreo, insieme alla famiglia, a cinque anni e vede poi sommarsi nel tempo due dittature, quella del fascista Antonescu e quella del comunista Ceausescu.

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