Manganelli, il viaggiatore sedentario

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Credo che il più straordinario viaggiatore italiano del secolo scorso sia stato Giorgio Manganelli: non Cecchi, né Piovene, né Moravia, né Calvino, né Parise. Aveva la qualità fondamentale del viaggiatore: quella di essere un feroce sedentario, dominato dalle terribili forze del centro. Solo che, in certi momenti, sotto la spinta di particolari immaginazioni, furori e vocazioni, la claustrofobia (diceva di sé: «Sono più claustrofobo di un giallo d’uovo») rompeva disastrosamente gli argini, dilagava nel mondo e creava un mondo non meno drammatico di quello interiore: mobilissimo, furioso, allucinante, intriso di mito e sopratutto di sacro. Tutte le possibili forme di immaginazione, dal Rinascimento, al Barocco, al Rococò, al più grandioso lirismo romantico, alla tenerezza Biedermeier, alla ironia metafisica, alla farsaccia volgare diventavano un corteo di corpose e irradianti metafore. Niente era più reale di questa irrealtà.
Viaggiò molto: Etiopia, Arabia, Iraq, Pakistan, India, Cina, Taiwan, Filippine, Singapore, Thailandia, Italia (un’Italia ignorata), Islanda, Norvegia, Finlandia: con una certa propensione verso gli estremi e, per meglio dire, a rendere estremo tutto ciò che esiste. Viaggiava misteriosamente: accadeva, in certi momenti, che gli amici gli telefonavano: il telefono, di solito garrulo e delizioso, taceva per uno, due o tre mesi; Manganelli era via, in primo luogo da sé stesso.
Poi Manganelli tornava, felice, disperato ed esausto: affrescava albe e tramonti, ghiacciai, vulcani, deserti, settentrioni e meridioni, islamici, indù, buddhisti, confuciani, taoisti, cimiteri, templi, moschee e piogge — infinite piogge monsoniche — forse l’elemento naturale che egli più odiava e prediligeva. Come Hitchcock firmava tutti i suoi film con l’immagine di sé stesso, colto di passaggio o dietro una finestra o una porta semiaperta, Manganelli lasciava sempre i propri lineamenti in ognuno dei suoi libri di viaggio: un turista brizzolato, pingue, sudato, deliziosamente goffo, preda delle più divertenti avventure aeree, terrestri o marine.
È uscita in questi giorni la riedizione di Cina ed altri Orienti, che Salvatore Silvano Nigro ha curato con molta precisione ed intelligenza. Comprende: Cina, Chi ha rubato le Filippine?, Malesia (1972-3): In Arabia con Leone, Pakistan-Kuwait, Irak (1975-87): Progetti e stesure alternative e scritti minori come: Da Allah a Klee, Aspettando con calma che la terra tremi, Con due cervelli di ricambio, Clandestinità di Mao, Ho spiato i giapponesi. La parte più bella è senza dubbio Malesia: il capolavoro di Manganelli viaggiatore, insieme al più tardo, memorabile Viaggio in Islanda.
Ho scritto troppo, e credo male, su Manganelli. Ora vorrei citare soltanto una sua pagina sulle donne malesi.
«Le donne malesi non soffrono alcun divieto o preclusione di origine islamica; non usano veli, non debbono stare in casa, e di fatto lavorano come l’uomo; come in tutta l’Asia le vedi in mezzo ai campi, lungo la strada, nelle piantagioni, curve sotto i pesi di una vita dura e disadorna. Ma il loro regno è il mercato: tra le bancarelle, i chioschi, per tutti gli itinerari del bazar, tra le tavole su cui si dispiegano pesci e frutta, le donne regnano quasi assolute sovrane. Non sono invitanti in quanto donne; hanno un che di materno, ma di duramente tale; hanno una singolare dignità, squisitamente malese, e insieme un che di mite e di dolce; pare che il loro gesto di venditrici di cibi e stoffe abbia qualcosa di rituale; che faccia parte della loro condizione di madri, di custodi della vita, di parche, forse; esse nutrono, e potrebbero cessare di nutrire; non hanno illusioni sulla qualità dell’esistenza, né sull’aspro dovere di viverla senza saperne il senso. La loro femminilità pervade l’interno del mercato, dentro il quale si penetra e fruga camminando per uteri di scale; strettissimi passaggi collegano banchi di splendide stoffe, banchi di argenti, banchi di cibi; contratto con una donna minuta e gentile una stuoia di paglia, splendida di geometrici colori, una povera e luminosa cosa; attorno al mercato passo tra donne accoccolate davanti alla loro frutta, ai pesci dalla forma bizzarra… Ma lo spettacolo più singolare lo vedrò la notte; il mercato è già chiuso, ma nella precoce notte tropicale ancora indugiano, a ridosso di un porticato, una serie di banchi di frutta; ad essi presiedono donne, per lo più anziane, tra cui una ricordo, di rara maestà, che fumava e portava gli occhiali, rugosa e schiva, ma calma e potente; non timorose delle ventate di un tempo isterico, delle sùbite piogge, le donne stavano sedute e, scendendo l’oscurità, accendevano i loro lumi ad acetilene sulle bancarelle; ed allora quelle gravi donne malesi erano Norne, e quei frutti cibi magati e notturni, e solo un pazzo pittore caravaggesco avrebbe potuto catturare il fulgore di quel fuoco d’acetilene, instabile ed esploratore, che toccava insieme i frutti e la pelle delle donne notturne; e immobili, le donne indugiavano a lungo, forse sino a notte fatta, custodi e dispensatrici e, a quell’ora, in quella luce, così acquattate nei loro troni sotto i portici, temibili e fatali».


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