L’ossessione degli Stati per il controllo, dalla Londra vittoriana all’Ovra fascista
E in base a questo principio uno Stato come il Regno delle due Sicilie poteva passare dal rango di alleato a quello di nemico quando in base alle informazioni inviate a Londra dalla rete di uomini d’affari e dall’ambasciatore a Napoli, sir Henry George Elliot, si scopriva che la fragile tenuta dei Borboni non giustificava la determinazione con cui Ferdinando II voleva continuare a fare di testa sua. A schierarsi per esempio con la Russia contro l’Inghilterra e la Francia nella guerra di Crimea.
Altro che Contessa di Castiglione e Mata Hari, personaggi di grande fascino, ma di consistenza storica sopravvalutata. L’ossessione del controllo fra gli Stati, antica quanto la storia, è un’arte da affidare più che a personaggi romantici a professionisti fidati, come quel Charles de Morny, fratellastro di Napoleone III, che dopo la guerra di Crimea venne incaricato di riallacciare le relazioni diplomatiche con la Russia e nello stesso tempo di creare una rete di contatti per ottenere utili informazioni al gioco europeo. Eugenio Di Rienzo, biografo di Napoleone III (Salerno editrice), ricorda che proprio da Mosca giunse a Parigi la soffiata che la Prus-sia non avrebbe fatto alcun passo nel caso di un intervento francese in Italia .
Gli Stati moderni hanno sempre fatto grande investimenti per controllare il nemico storico, come ha insegnato tutta la letteratura sulla Guerra Fredda, o episodi meno conosciuti ma altrettanto importanti, come la lunga penetrazione dell’Afghanistan negli anni Venti e Trenta del Novecento da parte dei tedeschi. La Germania, ricorda Di Rienzo, investì milioni di marchi per costruire strade, aeroporti, organizzare missioni archeologiche e sanitarie, inviando sul posto professionisti che erano per metà spie. L’obiettivo era di colpire la Gran Bretagna al cuore del suo impero.
A volte le energie maggiori erano spese non per contenere il nemico, ma per controllare l’amico. Mauro Canali, autore del fondamentale «Le spie del regime» (il Mulino, 2004), racconta del continuo tentativo dell’Italia di ottenere informazioni sulla Germania attraverso cittadini tedeschi e dei tentativi di questi ultimi di controllare l’Italia, anche per vedere quale fine facevano gli aiuti mandati per sostenere la produzione industriale o per puntellare iniziative militari disastrose come l’attacco alla Grecia.
Succede così che proprio fra alleati si scateni la guerra di spie più feroce e in taluni casi imbarazzante. La polizia politica fascista reclutò per esempio con l’arma del ricatto un cittadino tedesco residente a Roma, accusato di pedofilia, che evitò il processo riferendo sui movimenti della comunità nazista a Roma.
Con lo stesso spirito di diffidente competizione Arturo Bocchini, capo dell’Ovra, la polizia politica, su consiglio di Antonino Pizzuto, rifiutò un collegamento di intelligence con i tedeschi in funzione anti-inglese e anticomunista. Il ragionamento era semplice: i fascisti in Italia avevano fatto terra bruciata e, dopo l’avvento del nazismo, i comunisti dalla Germania erano spariti. Perché investire in un gioco che non portava vantaggi? I tedeschi continuarono a insistere, tant’è che nel 1939 venne scoperta e disarticolata una rete di informatori nazisti a Roma per opera del futurista triestino Italo Tavolato, le cui vicende ispirarono nel 1986 un libro a Sebastiano Vassalli, «L’alcova elettrica».
Abituati al realismo dei fatti, gli storici sono la categoria che meno si può scandalizzare per la rete spionistica fra l’America e l’Europa. Ogni campo è utile per avere informazioni, come spiega Canali quando racconta della rete organizzata dagli Stati Uniti in Vaticano subito dopo la presa di Roma nel giugno 1944. Vennero ingaggiati due ex agenti dell’Ovra, Virginio Scattolini e Filippo Setaccioli, con il compito di avere informazioni sulla guerra nel Pacifico attraverso l’ambasciata giapponese nella Santa Sede. Alcuni faldoni finirono anche sul tavolo del presidente, ma presto si scoprì che le informazioni di Dusty e Vestel, questi gli pseudonimi dei due spioni italiani, contenevano al massimo il cinque per cento di verità.
Dino Messina
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