by Sergio Segio | 17 Luglio 2013 7:02
LONDRA — Per giorni Enrico Letta ha limato l’intervento del debutto nella capitale del Regno Unito, dove oggi incontrerà David Cameron. Ma quando arriva nella sede del think tank Chatham House, dove è di casa, il fantasma del giallo kazako lo aspetta al varco. I giornalisti italiani vogliono sapere se la bufera del Viminale avrà ripercussioni sulla tenuta dell’esecutivo e lui, con un sorriso che non riesce a mascherare il fastidio, mette plasticamente le mani davanti alle telecamere, stoppando ogni interrogativo. Spiega come l’Italia farà da pungolo perché la Gran Bretagna resti attaccata al carro europeo e quando i giornalisti pronunciano la parola «Alfano», Letta saluta e fila via: «Grazie…».
Ma è nel chiuso della sala conferenze, al termine di un intervento in inglese tutto incentrato sulle questioni europee e l’urgenza della crescita, che il premier si trova costretto a fare i conti con i drammi e i pasticci italiani. Si alza un giornalista della Reuters: «Presidente, se Alfano deve dimettersi il governo cade? E se Berlusconi viene condannato, che succede?». La platea ride, Letta invece sembra spiazzato, visibilmente imbarazzato: «Il governo andrà avanti, sono convinto che supereremo questi ostacoli…».
Sembra una risposta di maniera, invece il premier spera davvero che il peggio sia alle spalle. La botta è stata forte, con il vicepremier costretto a difendersi davanti alle Camere e minacciato dalla mozione di sfiducia delle opposizioni. Eppure lui è fiducioso, sa che il Quirinale ha aperto il suo ombrello protettivo su Alfano e sente che la maggioranza del Pd è ancora dalla sua parte. Il vero problema è il pressing crescente di Matteo Renzi, che gli chiede di metterci la faccia e di prendere posizione, decidendo se Alfano lo ha convinto o no. Fin qui, prima della «figuraccia» internazionale sulla Shalabayeva, il premier aveva scelto di ostentare indifferenza, accogliendo con aplomb anglosassone persino il blitz del sindaco dalla Merkel. Ma adesso Letta è davvero stufo, sente che la sua tela, faticosamente costruita da una capitale all’altra dell’Europa — lottando contro il debito pubblico, la disoccupazione giovanile e la burocrazia dell’Unione — rischia di essere disfatta dalle pur legittime ambizioni di un esponente del suo partito. E medita la controffensiva. Fedele alla linea della cautela che si è imposto, Letta vorrebbe evitare di andare allo scontro diretto con Renzi, ma i suoi incalzano, gli chiedono di stoppare pubblicamente le incursioni del sindaco e di «battere un colpo sul Pd». La pazienza del capo del governo, fanno capire i suoi, «ha un limite e potrebbe finire molto presto». Quella dei lettiani è già finita, come prova lo scontro tra Paola De Micheli e la renziana Simona Bonafè.
L’idea è quella di incontrare a porte chiuse, al ritorno da Londra, il segretario Guglielmo Epifani, i vertici e i gruppi del Pd: per verificare il livello di lealtà e di sostegno alle larghe intese, chiedere esplicitamente che finisca «il gioco al massacro» e potersi così rimettere al lavoro sulle riforme che servono all’Italia. La preoccupazione tra i lettiani è alta e la domanda che li assilla è questa: «La pistola di Renzi è caricata a salve, oppure no?».
Per Letta è stata la giornata più dura, iniziata a Palazzo Chigi con un tormentato vertice sul caso Kazakistan (presenti Alfano e la Cancellieri), convocato per decidere quali e quante teste tagliare al Viminale, analizzare il dossier verificando anche il ruolo della Farnesina, concordare i passaggi più delicati della difesa di Alfano in Parlamento e soppesare il comunicato di Palazzo Chigi: la relazione di Pansa è esaustiva, il governo non è mai stato coinvolto. Se il ministro avesse comunicato in Aula gli avvicendamenti all’interno della polizia avrebbe delegittimato il prefetto Alessandro Pansa, così si è deciso di annunciare la ristrutturazione affidando le decisioni, almeno formalmente, al capo della Polizia. Finito il vertice Letta ha pranzato con Romano Prodi, al quale ha chiesto consigli sulla tappa britannica. Poi è volato a Londra, inseguito dalle ombre della crisi kazaka e dal sospetto di aver voluto coprire il «giallo» drammatizzando la vicenda dell’insulto di Calderoli al ministro Kyenge. Una «vergogna» contro la quale ha tuonato anche da Chatham House. Intervistato dalla Bbc il premier ha assicurato che l’Italia «non ha bisogno di salvataggi» da parte dell’Europa e ha ribadito l’intenzione di fare da stimolo perché la Gran Bretagna non esca dall’Europa: «Sarebbe un disastro, un passo molto negativo per Londra e per il nostro futuro comune».
Monica Guerzoni
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