Le spie venute dal Web

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Allo snodo di due grandi arterie di Washington, la Capital Beltway e la superhighway per l’aeroporto internazionale Dulles, invisibile dietro un centro commerciale per articoli di lusso, sta un edificio di
cristallo scuro come dozzine di altri in quella zona.
È la sede centrale di una società che non fabbrica niente e non vende nulla che voi e io potremmo comprare, ma fattura sei miliardi di dollari all’anno. Si chiama Booz Allen Hamilton e se oggi il suo nome è divenuto improvvisamente conosciuto al pubblico del mondo, da Mosca a Honk Kong, dalla Bolivia a tutti gli Stati dell’Unione è perché fra i suoi ventottomila dipendenti ha lavorato fino al maggio scorso un giovanotto dall’aria insignificante e dal volto dimenticabile: Edward Snowden.

È da questo palazzo all’8283 di Greensboro Drive di McLean, Virginia, che può partire un percorso alla ricerca di chi siano, e del perché affiorino sempre più numerose, le nuove talpe che stanno rivoltando e sforacchiando il terriccio del cyberospionaggio. Perché nel groviglio infetto di danaro privato e di paranoia politica, di Grande Fratello e di grandi profitti, sta il concime degli scandali.

La Booz Allen è in una posizione magnificamente strategica. Sta nello stesso sobborgo dove sorge la centrale della Cia, e a un quarto d’ora di auto dal Pentagono. In meno di un’ora si raggiunge la Nsa, l’ormai celebre “Puzzle Palace”, il castello degli enigmi, che tutto setaccia, vede e ascolta. Sono loro, Cia, Pentagono, Nsa e schiere di altre agenzie, ministeri, enti governativi — Nasa inclusa — che forniscono il 99 per cento del fatturato della Booz Allen, appaltandole consulenze, servizi, assistenza informatica, gestione, programmi di cyberguerra, segreti militari. È un ex alto dirigente della Booz, James Clapper, il direttore attuale della Nsa, quello che ha giurato il falso davanti al Parlamento.
Fu nella sede centrale in Virginia che nel 2009 entrò, per un colloquio di lavoro, Edward Snowden. Per un giovanotto di neppure ventisei anni, senza un diploma di liceo, con alle spalle un biennio di università popolare, il Community College, un tentativo di arruolarsi nelle Forze Speciali della US Army, stroncato da due gambe rotte in addestramento e una miserabile postazione da travet alla Nsa, incollato davanti al monitor di un computer, le porte a vetri della Booz Allen si aprirono come i portali del Regno di Oz nel sogno di Dorothy. Nella fame insaziabile di personale, per lucrare sulle commesse del Pentagono, la “ditta” lo prese senza guardare troppo per il sottile e lo mise a parte di un programma di sorverglianza globale conosciuto con il nome operativo di Prism. Snowden fu assunto con uno stipendio di duecentomila dollari annui più le spese. Spese non indifferenti, perché questo ragazzo che inizialmente la Nsa aveva assunto come guardia notturna, sarebbe stato utilizzato in delicatissime e costosissime missioni internazionali oltre Oceano: in Giappone, in Europa, in Svizzera, a Ginevra, dove lavorava fianco a fianco della Cia per supporto high-tech alle loro operazioni molto low-tech. Come nel caso di un importante banchiere ginevrino che gli agenti dell’intelligence Usa fecero ubriacare come un asino a un party per poi metterlo al volante della sua auto e avvertire la polizia che lo arrestò. L’intervento dei “contatti” della Cia nel governo e nella polizia svizzera misero a tacere l’incidente, ma il banchiere divenne da quel momento ostaggio dei servizi Usa.
Fu quello, la “compromissione” del finanziere a fini di ricatto, l’episodio che disgustò Snowden e cominciò a trasformarlo da talpa che scavava in campi altrui a roditore dentro il proprio. Dopo un periodo alle Hawaii, in una deliziosa villetta bianca e azzurra naturalmente pagata dalla Booz Allen a Oahu, accanto alla principale base aeronavale americana nel Pacifico, Pearl Harbor, il disinganno per quel lavoro sporco trasformò — o così ci racconta — il bravo soldato della nuova guerra silenziosa in un guerrigliero per la difesa dei diritti civili, della privacy, della Costituzione. Lo spinse a diventare non più giocatore nel nuovo Grande Gioco dello spionaggio informatico, ma arbitro pronto a “fischiare il fallo”. Piantò i duecentomila dollari, la fidanzata, gli Usa — nei quali verosimilmente non tornerà mai più, almeno vivo — e scelse Honk Kong, perché «pur essendo parte della Cina conserva una tradizione di libertà», spiegò. Non lo fece per soldi, assicura, anzi: dopo due mesi in un hotel di lusso, il Mandarin, i suoi risparmi si andavano esaurendo.
E questa, di puro, cristallino idealismo, è la spiegazione che ci offre tutta la nuova generazione di talpe, che siamo costretti a chiamare così per la intraducibilità in italiano di ciò che essi sono davvero, cioè “
whistleblower”, coloro che “fischiano il fallo”, figura che nel codice italiano non esiste e che in quello americano è riconosciuta e formalmente garantita. La informatizzazione di tutto, la meravigliosa terra promessa nella quale le piccole incombenze della vita e i grandi progetti come il controllo dei satelliti, delle guerre, della produzione, della conoscenza, della democrazia elettorale, trasforma soldati semplici, tecnici, operatori, programmatori di qualsiasi livello, administrator di siti, in Mata Hari e James Bond accidentali. Non erano loro, gli Snowden, i Bradley Manning, i tanti “fischiatori” al servizio di Assange e di Wikileaks, che andavano a cercare i segreti. Erano i segreti che andavano a cercare loro e senza il rischio della fucilazione all’alba o del colpo alla nuca alla Lubjanka che il Kgb riservava alle spie.
Non ci furono sicuramente nessuna motivazione finanziaria, nessun sacchetto con trenta denari, né ispirazioni rivoluzionarie in Bradley Manning quando, nel 2009, passò ad Assange e a Wkileaks migliaia di documenti e milioni di bytes che transitavano davanti al computer nella sua baracca in Iraq. La sua ispirazione era la stessa citata da Snowden nelle interviste filmate dai giornalisti del Guardian
ai quali passò parte del materiale che maneggiava per la Booz Allen: «la trasparenza». Ma se Snowden ha sacrificato, per fermare quella che lui chiama la «crescita mostruosa della sorverglianza senza controlli che cresce ogni giorno a nostra insaputa », un’esistenza comoda e privilegiata, il soldato semplice Manning ha seguito un percorso ben diverso e doloroso.
Bambino di piccola statura, appena 1,57 centimetri, gracile, perennemente tormentato dai bulli a scuola anche per i suoi modi timidi e per la fama di essere omosessuale, Manning ha avuto nel momento di gloria anche una rivincita privata sul “sistema”. Nei computer, lui, sempre sbeffeggiato dai commilitoni e degradato per indisciplina dai superiori da “soldato scelto” a “semplice”, aveva lo strumento perfetto per saldare il conto con quel mondo che lo umiliava. Un po’ idealista, un po’ ribelle, molto ingenuo. Come dimostrò confidandosi in chat con un celebre hacker, Adrian Lamo che lo denunciò all’Fbi. Manning rivelò al mondo le vergogne e i soprusi che l’occupazione dell’Iraq, l’esasperazione dei soldati, le torture avevano inflitto ai civili in Mesopotamia come in Afghanistan. Torture che lui stesso, secondo il rapporto dell’inviato dell’Onu, ha subìto nei tre anni di carcerazione senza processo e soprattutto in isolamento nel campo di Quantico. I ventidue capi di imputazione contro di lui, nel processo appena cominciato possono fruttargli vent’anni di carcere.
Lo stordimento, la vertigine che l’esplosione della Rete produce nelle sue infinite capacità di fare il bene o il male con la perfetta indifferenza di un router, di un server, di una fibra ottica costò la vita del grande Aaron Swartz, il genio che aveva dedicato la propria adolescenza, e la sua prima giovinezza, a lottare contro le barriere che si stanno innalzando per fermare l’oceano di Internet. Non una “talpa” per segreti militari, né un whistleblower deciso a rivelare misfatti e segreti, ma un sognatore reso disperato dalla realtà di una Rete sempre meno aperta e sempre meno fedele alla promessa iniziale. Piegato da denunce, indagini, processi fino al suicidio per impiccagione nell’appartamento di Crown Heights, Brooklyn.
È tra questi estremi inconciliabili che la accelerazione quotidiana della tecnologia allontana ogni giorno — la Rete come strumento di ogni liberazione, la Rete come architettura di ogni controllo — che questi piccoli eroi, o piccole vittime, resi giganteschi soltanto dalla natura stessa del mezzo, si dibattono. C’è un soffio di giustizia poetica nella constatazione che i ciclopi come la Booz Allen possono essere fatti vacillare e accecati da persone come un ex studente liceale fallito, che il Pentagono può essere svergognato da un ragazzo di ventun’anni tormentato per la sua statura e per la sua sessualità. È la versione high tech del mito di Davide e Golia. Ma con un’avvertenza, che altre “talpe” da tempo uscite alla scoperto ma ignorate, ripetono: la scoperta di buchi nella Rete può condurre a maglie ancora più strette. Ha detto un ex funzionario della Nsa in attesa di processo, uno dei tre che invano denunciavano i programmi di intercettazione e di controllo esplosi dopo l’11 settembre, e lo ha detto con parole da
Star Wars: «C’è una parte visibile e luminosa di Internet, ma voi non vedete che esiste una parte oscura». Quel “lato oscuro della forza” dove le Booz Allen prosperano e qualcuno comincia
ad accendere cerini.


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