Le ombre sulla crescita cinese

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PECHINO — La crescita dell’economia cinese sta rallentando. Su questo non ci sono dubbi. Per i primi dieci anni del Duemila l’incremento medio del Prodotto interno lordo era stato del 10,5 per cento. Per il 2013 l’obiettivo fissato da Pechino era intorno al 7,5%; nel primo trimestre è stato al 7,7, già in discesa rispetto al 7,9 dell’ultimo trimestre 2012; ma l’ultima proiezione di Goldman Sachs (che comunque non sempre le centra) scende al 7,4. Il mondo globalizzato, l’America della ripresa lenta e l’Europa della crisi profonda debbono tremare?

Nelle ultime due settimane si sono inseguite notizie allarmanti: c’è stato un giovedì nero, il 20 giugno, nel quale si è temuta una crisi di liquidità nel sistema bancario di Pechino, un credit crunch come quello che affondò la Lehman Brothers e segnò l’inizio della grande depressione nel 2008. Per giorni la Banca del Popolo cinese (la Banca centrale) ha taciuto: sembrava che volesse punire gli istituti di credito minori che avevano prestato denaro in modo sconsiderato per anni, soprattutto alle amministrazioni locali, dalle province alle grandi città, indebitate complessivamente per 12 mila miliardi di dollari. Poi, all’improvviso, nuova immissione di liquidità e rassicurazioni sulla tenuta del sistema.

Ora un nuovo tuffo al cuore. Si chiama Pmi, Purchasing manager’s index : registra, attraverso sondaggi tra i direttori degli acquisti delle aziende manifatturiere, le aspettative legate agli ordinativi ricevuti per i loro prodotti. In pratica, in base al Pmi, vengono decisi livelli di produzione, scorte, tempi di consegna e occupazione. Il Pmi cinese di giugno, secondo la stima della Hsbc, è sceso a 48,2, rispetto al 49,2 di maggio che già non era positivo. In questo indice infatti andare sotto quota 50 significa aspettativa di contrazione. Il dato dell’industria cinese gela le speranze create dall’ascesa americana: da 49 a 50,9. Ci sarebbe un altro dato, elaborato dalla China Federation of Logistics and Purchasing, che vede un calo dal 50,8 di maggio, ma solo al 50,1.

Alle statistiche ufficiali made in China , però, non crede nemmeno il governo di Pechino. Basti pensare al Pil: se quello nazionale nel primo trimestre è aumentato del 7,7% secondo l’Ufficio centrale di statistiche, com’è possibile che tutte le 31 province abbiano contemporaneamente diffuso dati di crescita superiori? Si va dal record del 12,8% del Gansu al minimo del 7,8% di Shanghai, comunque più alto di quello medio (come mostra il grafico in questa pagina). Misteri dell’economia socialista di mercato. Che succede? Chiedere un’interpretazione autentica alla Banca centrale è inutile. Quando un giornale invoca un commento, la risposta consueta è «mandateci un fax». E di solito la comunicazione si ferma lì.

Qualche giorno fa, però, ha parlato Xi Jinping, presidente della Repubblica popolare nonché segretario del Partito comunista. Per dire che «i dirigenti delle amministrazioni locali non debbono più essere valutati semplicemente in base alla crescita del Prodotto interno lordo nelle loro zone». La traduzione del concetto è semplice: basta con l’inseguimento ossessivo di numeri (spesso truccati al rialzo), Pechino dopo l’industrializzazione forzata ha la necessità di aggiustare la rotta. Da economia basata sugli investimenti pubblici e sulle esportazioni, la Cina si rende conto di dover passare a un sistema che si regga più sui consumi interni. Per raggiungere l’obiettivo serve una crescita più lenta ma di qualità migliore, dice il premier Li Keqiang. Secondo lui per creare questo mercato di consumi interni sarà sufficiente un incremento medio del Pil sul 6,9% da qui al 2020.

Ma nel piano di Li Keqiang gli analisti internazionali vedono molti rischi. La sua idea fondamentale è di ridurre la diseguaglianza sociale tra popolazione cittadina e contadini; la ricetta è l’urbanizzazione. Così, per stimolare la domanda interna e la modernizzazione, i pianificatori del regime vogliono portare altri 400 milioni di cinesi in città nei prossimi 10-15 anni. Il governo promette di investire 40 trilioni di yuan (6.500 miliardi di dollari) per costruire 200 milioni di unità abitative in nuove città medie e piccole (si parla sempre come minimo di mezzo milione di abitanti). Al termine della migrazione, nel 2030, la Cina avrebbe circa un miliardo di cittadini, un meraviglioso mercato interno. Li Keqiang conclude il ragionamento assicurando al resto del mondo che parte della spesa per l’ondata di urbanizzazione andrebbe in importazioni.

Però, sono proprio le enormi spese delle province, spesso dirette alla costruzione dissennata di nuovi quartieri e infrastrutture che hanno portato al giovedì nero in cui si è temuto il credit crunch . Sembra un gioco di scatole cinesi. E lo è. «Deng Xiaoping vent’anni fa, per lanciare le sue aperture al mercato, delegò le decisioni economiche alle amministrazioni locali, ma il risultato è stato un decentramento incompleto, minato dalla mancanza di democrazia, che ha permesso ai governi provinciali e delle grandi e piccole città di manovrare conti, statistiche e denaro», spiega al Corriere Michael Dunne, americano sbarcato in Cina nel 1986 e oggi rispettato consulente commerciale. Secondo l’analisi di Nomura, i principali indicatori cinesi somigliano a quelli americani alla vigilia della grande crisi del 2008. In particolare i prezzi delle case sono saliti del 113% dal 2004 al 2012; quelli Usa erano aumentati dell’84% tra 2001 e 2006. Ma forse il dato cinese è anche ritoccato al ribasso perché ingloba le case vecchie e fatiscenti, se si considerano solo gli appartamenti nuovi l’incremento raggiunge il 250%. A questo punto è necessaria una correzione forte. La decisione, presa al vertice del potere, ha ispirato la stretta sulla liquidità organizzata dalla Banca centrale. Il rallentamento della crescita del Pil sembra programmato e le parole di Xi Jinping ai quadri del partito lo confermerebbero. Per rafforzare la sua campagna di moralizzazione Xi conta sul responsabile della disciplina nel Comitato permanente del politburo: è Wang Qishan, ex genio dell’economia, famoso per aver detto nel 1999, durante la febbre delle Borse asiatiche: «Il principio fondamentale dell’economia di mercato è che i vincitori guadagnano e i perdenti perdono».

Sembra tutto calcolato. Ma i dati che vengono dalla «Fabbrica Cina» preoccupano lo stesso. Che succede se Xi e il suo premier Li sbagliano i conti?


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