by Sergio Segio | 9 Luglio 2013 18:41
“Anche una nave da diporto passava, e virò di bordo. Ma un peschereccio che tirava le reti li vide, e ne ebbe pietà…”. Interrompo la parafrasi grossolana, per non arrivare al punto in cui il ferito viene affidato alla locanda dal samaritano che paga di tasca sua, e parafrasare la locanda con un Centro di identificazione ed espulsione, in cui incarcerarli per sei mesi rinnovabili, per il reato di esser nati altrove — a Samaria, forse.
Lo scorso 23 giugno, quando all’ultimo momento il papa Francesco si tenne alla larga dal concerto per l’Anno della fede, adducendo “impegni improrogabili”, si mormorò che non volesse fare incontri impropri: chissà. Chissà se davvero abbia pronunciato la frase che gli è stata attribuita: “Io non sono un principe rinascimentale”. Frase singolarmente pregnante, in una situazione della curia che può ricordare i fasti e i nefasti di quel periodo meraviglioso, e che soprattutto richiamava involontariamente i cinquecent’anni dalla scrittura del Principe di Machiavelli. In questi giorni c’è stata una imprevedibile cadenza di inviti avanzati e disdetti, che ha coinvolto istituzioni civili, religiose, automobilistiche, e poi il desiderio del papa di non essere accompagnato nel suo pellegrinaggio da autorità politiche, a parte la signora sindaco dell’isola generosa. Devono essere segni dei tempi. Il papa Francesco ha confidato gran parte della propria entrata in scena ai gesti, gli improvvisati e i meditati. Il più meditato era questo: dove fare il primo viaggio. Ammesso che uno di noi si fosse messo nei panni del papa che prendeva la sua decisione (si può fare: quel Machiavelli lo scrisse addirittura tre volte in una sola lettera, di cui contava che fosse fatta leggere al papa di allora, “Se io fussi il papa…”; e prima Cecco, “s’ i fosse papa, allor sarei giocondo, ché tutt’i cristiani imbrigarei”), ecco, non ne avremmo trovata una più significativa e commovente di questa, di andare a Lampedusa. In un bellissimo mare d’estate, mutato da troppi anni nel cimitero d’acqua dei disperati e di chi ha voluto nonostante tutto sperare, e nel deserto d’acqua delle traversate dei superstiti. Il gesto primo era la corona deposta su quel mare, con la richiesta di perdono, incontro agli altri che arrivavano fortunosamente. Lo aspettavano, dei vivi, gli sbarcati, i pescatori e gli altri marinai impegnati a soccorrere la migrazione, e gli abitanti dell’isola vagheggiata come un ponte d’azzardo verso l’Europa. E poiché la gran parte di quelli che vengono dalla costa africana sono musulmani, la visita è stata anche una Ratisbona
sui generis.
Ipersensibili ai gesti e ai simboli, le cronache si sono saziate dello zucchetto al vento, della motovedetta della Guardia Costiera, della papamobile sostituita da una campagnola presa in prestito (appena dopo aver deplorato i preti con le macchine ultimo modello: ci sarà una gran rottamazione…), di saluti e carezze nella lingua universale del Mediterraneo, del pastorale a croce fatto dei pezzi di legno colorato delle barche dei migranti, di tutto ciò che appartiene alla vita quotidiana e fa effetto di straordinario dopo tante cattive abitudini di etichetta e protocollo, e insinua perfino un sospetto di demagogia. Come presentarsi da un balcone molto alto, e dire: Buonasera.
Ma le parole erano altrettanto importanti, e anch’esse sono suonate tanto più straordinarie quanto più normali, a cominciare dal “Dio ci giudicherà in base a come abbiamo trattato i più bisognosi” consegnato al twitter Pontifex. Non solo Dio, del resto. Si può voltarlo, il twitter: “I bisognosi ci giudicheranno in base a come li abbiamo trattati”. Dice anche, il papa, che toccare la carne di chi soffre è come toccare Cristo.
“Anche la vita di Francesco d’Assisi è cambiata quando ha abbracciato il lebbroso perché ha toccato il Dio vivo”. Anche questo pensiero, questa esperienza, sa stare in piedi per sé, e una vita può essere cambiata quando si abbracci un lebbroso perché si è abbracciato un lebbroso. Era stato il parroco dell’isola a invitare il papa, il mese scorso. “Quando alcune settimane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pensiero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vicinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta, non si ripeta per favore”. Francesco predilige un tono affabile, come questo “per favore”, come la descrizione della meta cui tendono i migranti, “persone in viaggio verso qualcosa di migliore”. Ricorda i richiami di Dio ad Adamo, “Dove sei, Adamo?” e a Caino, “Dov’è tuo fratello?”, e toglie alla tragedia degli annegati il segno della sventura ineluttabile per assimilarla all’omissione di soccorso e, anzi, all’omicidio. “Tanti di noi,
mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri”. Parola di naviganti, “disorientato”, di chi ha perso il suo oriente,
della “anestesia del cuore”, della “globalizzazione dell’indifferenza”. “Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: ‘Dov’è il sangue di tuo
fratello che grida fino a me?’. La cultura del benessere… ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla…”. Abbiamo dimenticato come si fa a piangere per la pena degli altri e la nostra indifferenza, dice, e ha cura di usare il “noi” che lo chiama in correità, salvo abbandonarlo per la terza persona plurale dei “trafficanti, quelli che sfruttano la povertà degli altri”, e “coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada a drammi come questo”. Coloro, i pescicani umani piccoli e grossi, hanno già in uggia la mania (lieta, del resto, non lugubre né vittimista) di questo gesuita infrancescato per la semplicità e i poveri. Si sentivano al riparo della distinzione fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio. I non credenti, o i credenti a loro modo, hanno però altrettante buone ragioni per temere il giudizio dei bisognosi e per abbracciare i lebbrosi. Che Cesare e i suoi impiegati non possono perseguitare o disprezzare se non tradendo se stessi, oltre che il loro Dio. Per non dire di Gesù, quel famoso pauperista.
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