La sfida di Aliza la religiosa contro gli ultraortodossi

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BEIT SHEMESH (Israele) — Il cartello davanti alla sinagoga ordina alle donne: «Non camminate su questo marciapiede». Dall’altra parte della strada una mamma spinge la carrozzina, la gonna lunga a coprire le gambe, il cappello per nascondere i capelli. A pochi metri un manifesto avverte in lettere cupe da annuncio mortuario: «Internet è la porta dell’inferno».

Beit Shemesh sta a una ventina di chilometri da Gerusalemme, tra le colline pietrose dove sessantacinque anni fa l’appena nato Stato israeliano ha combattuto la sua prima guerra contro i Paesi arabi. Oggi sono diventate la prima linea della battaglia tra laici e ultraortodossi. La città ha raggiunto gli 80 mila abitanti, quasi la metà religiosi oltranzisti che provano a imporre le loro regole a tutti quanti: alle ragazze che passeggiano con abiti considerati inappropriati, agli uomini che guidano di sabato, ai ragazzi che ascoltano la musica dalle autoradio.

Il sindaco Moshe Abutbul è del partito religioso Shas, non ha mai investito per aprire un cinema o un teatro, era disposto a chiudere una elementare per bambine perché infastidiva gli haredim . A ottobre si vota per il municipio e la metà laica o religiosa ma non intollerante si è coalizzata per mandarlo a casa. Ha scelto come leader una donna: Aliza Bloch, praticante e devota, 46 anni e quattro figli, ha fondato e dirige una scuola media. «Dove i 1.300 ragazzi e ragazze stanno insieme, senza differenze, senza imposizioni su come si devono vestire, chiediamo solo che indossino una polo bianca, nera o blu».

Per lei la campagna elettorale è cominciata due settimane fa, quando ha accettato la proposta di Focolare ebraico, il partito nazionalista religioso che con Naftali Bennett è arrivato al governo. Anche a Beit Shemesh l’alleanza è con Yesh Atid (C’è un futuro) di Yair Lapid e con il Likud. I laburisti pur di sconfiggere quella che chiamano l’«invasione» sono pronti a sostenere la candidata di centrodestra.

Nell’ufficio di Aliza sta appesa la mappa con i quartieri che seguono una linea di confine invisibile, la stessa che per le strade prende il colore nero dei pastrani indossati dagli ultraortodossi. La coalizione considera le prossime elezioni come l’ultima occasione, uno dei consiglieri indica sulla cartina il verde di una collina: «I permessi sono già stati dati dal sindaco, vogliono costruire un’altra zona a totalità ultraortodossa, a quel punto l’equilibrio demografico salterebbe, perché con i nuovi arrivi diventerebbero la maggioranza in città».

Aliza indossa un cappello (è previsto per le donne sposate) e un completo color crema come le scarpe dal tacco basso. È convinta di poter realizzare quel che promette il suo slogan («Tutti insieme, uniti per il cambiamento») e di poter favorire la coesistenza. «In mezzo alla comunità “nera” esistono colori differenti, uomini che vogliono lavorare e non solo studiare la Torah, guide spirituali aperte al dialogo».

A Beit Shemesh vive anche il rabbino Dov Lipman, eletto in gennaio alla Knesset con Yesh Atid. È stato tra i protagonisti della battaglia di due anni fa, quando gli estremisti hanno tentato di impedire l’apertura di una scuola elementare per bambine: l’istituto è religioso e sionista, all’ingresso è issata la bandiera israeliana. Un simbolo inaccettabile per leader oltranzisti come Meir Heller, che aveva minacciato Lipman: «Non sventolerà mai davanti a casa mia».

Per mesi le piccole sono state perseguitate sulla via di scuola, sputi e insulti, calci ai poliziotti che le scortavano. Fino a quando quegli occhi terrorizzati e pieni di lacrime sono finiti in televisione: la loro sfida e quella delle loro madri è diventata la sfida di tutte le israeliane, Beit Shemesh è diventato un caso nazionale. «La questione — ha spiegato Lipman al quotidiano Haaretz — non è mai stata la decenza o come le bambine erano vestite. Era la scusa per il controllo del territorio, per dimostrare chi comandava e imporre i propri rituali a tutti». Aliza che santifica lo shabbat vuol farsi eleggere perché altri siano liberi di non imitarla.

Davide Frattini


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