La sconfessione del cattivismo

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 MESSAGGI che pure – come dimenticarlo? – ribaltano il senso comune allarmista e securitario su cui la politica italiana ha lucrato per anni, rappresentando nel dibattito pubblico l’immagine caricaturale di un paese incarognito. Nessuno fra i ministri firmatari del trattato italo-libico se l’è sentita più di rivendicare il respingimento in mare manu militari dei profughi verso i campi di prigionia allestiti nel deserto. Nessun opinion leader spiritoso ha indirizzato a papa Bergoglio il ben noto invito sarcastico: “Se gli piacciono tanto i clandestini, perché non li ospita a casa sua anziché rifilarceli?”.
Al contrario, nella destra italiana si sono levate solo un paio di voci per manifestare civile dissenso. Fabrizio Cicchitto: “Un conto è la predicazione religiosa, un altro è la gestione da parte dello Stato”. Giuliano Ferrara: “Il gesto è meraviglioso ma la globalizzazione porta speranza”… Magari, negli anni scorsi, di fronte a fenomeni complessi e drammatici come i flussi migratori e la gestione della pubblica sicurezza, il confronto si fosse mantenuto su toni così pacati!
Quando il ministro dell’Interno Roberto Maroni, nel febbraio 2009, proclamava che “non bisogna essere buonisti ma cattivi per contrastare l’immigrazione clandestina”, fra i sedicenti liberali e garantisti della destra italiana si era forse udita una presa di distanza?
La nostra classe dirigente, allora, non si macchiò solo della colpa dell’indifferenza denunciata a Lampedusa dal Papa. Essa considerò vantaggioso manifestarsi peggiore del suo popolo. Volle trasformare l’indifferenza in ostilità, col grido ignobile di fora da i ball. Questa è la verità storica. Se quello stesso anno fu introdotto il reato di immigrazione clandestina, rivelatosi del tutto inutile ai fini della deterrenza, lo dobbiamo a una campagna ideologica di dileggio finalizzata a ridicolizzare i sentimenti altruistici e il rispetto dei diritti fondamentali. La disumanizzazione si avvaleva di quel famigerato neologismo con cui la stessa bontà viene tradotta in ipocrisia, come tale riservata a una minoranza di privilegiati: il “buonismo”, appunto.
Così il vergognoso trattato italo-libico dei respingimenti ha finito per essere votato quasi all’unanimità da un Parlamento opportunista, riducendo all’insignificanza le voci di dissenso. Ma soprattutto, quando nel 2011 le rivolte arabe hanno dato luogo a una fuga via mare in cerca di salvezza verso le nostre coste, i nostri governanti hanno perso il senso delle proporzioni. Berlusconi ha parlato di “tsunami umano”. La Russa si è costernato annunciando un “esodo biblico” (da tifoso dei faraoni, la fuga degli schiavi verso la libertà non deve essergli mai piaciuta). Frattini e Maroni hanno sparato previsioni stratosferiche sui migranti in arrivo: due milioni, mezzo milione, trecentomila. Ci fu anche chi propose di evacuare gli italiani da Lampedusa trasformando tutta l’isola in un grande centro di espulsione. Alla fine furono censiti in tutto 22 mila sbarcati, in un paese che conta 60 milioni di abitanti.
E’ dunque solo per timore reverenziale di papa Francesco se questo grossolano armamentario di luoghi comuni ostili, adoperati da un ventennio per rendere la vita impossibile agli stranieri e per nascondere la tragedia umanitaria del Canale di Sicilia, oggi non viene più riproposto dagli imprenditori politici del rancore e della paura?
Credo (e spero) che non sia così. Il brontolio rimane sottotraccia. Certo, la Lega non smette di abusare dello stigma minaccioso per cui gli stranieri irregolari e i profughi diventano “clandestini”. Ma è un segno dei tempi che i suoi tentativi di organizzare contestazioni pubbliche della ministra per l’Integrazione, Cécile Kyenge, falliscano regolarmente. La Grande Depressione lacera, certo, una società sofferente; ma ha destituito di credibilità la ricetta secondo cui la salvezza andrebbe cercata nella scorciatoia delle piccole patrie. Semmai, in alternativa alla guerra fra poveri, torna a proporsi, lontano dalla politica, il bisogno di comunità. Lo spirito di fratellanza. La ricerca di buona vita.
La predicazione di papa Francesco intercetta questa ricerca diffusa di un nuovo spirito pubblico. Lui, per fortuna, non può essere tacciato di incoerenza o furbizia. Se, di fronte alla tentazione delle belle automobili, Bergoglio raccomanda ai sacerdoti di pensare ai bambini che muoiono di fame, nessuno può permettersi facili ironie. Prima o poi è inevitabile che il becerume trovi nuovi canali pubblici per manifestarsi; ma è lecito sperare che almeno una parte della nostra classe dirigente abbia imparato la lezione del rispetto, dopo gli anni in cui si era sgangheratamente avventata contro il “politically correct”.


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