“La Polizia sapeva chi era Alma” ecco l’ordinanza che smonta la versione del Viminale sul blitz
ROMA — Nel silenzio del ministro dell’Interno e dei suoi apparati, il caso Ablyazov aveva trovato un giudice a Roma. E una verità di evidenza solare, come tale evidentemente scomoda e dunque lasciata cadere come lettera morta. Era il 25 giugno scorso. Ma le parole di quel giudice, consegnate a un’affilata ordinanza di due pagine e mezzo, in qualche modo preveggenti l’esito della resa dei conti tra la Questura (Ufficio stranieri e Squadra Mobile) e gli uffici giudiziari di Roma che hanno avuto parte nella vicenda (giudice di pace, tribunale, Procura della Repubblica), sono state ignorate.
Come non fossero mai state pronunciate. Salvo tornare di attualità ora, perché utili ad abbozzare qualche risposta al rosario di domande che un’ispezione del ministero di Giustizia e una relazione del Presidente del Tribunale di Roma Mario Bresciano tornano a sollevare in questi giorni. In quanti sapevano di Alma Shalabayeva?
E, soprattutto, quando seppero? Perché, il 31 maggio, la Polizia tacque al giudice di pace la vera identità della donna mettendone al corrente la sola Procura? E perché la Procura ritenne comunque di concedere il nullaosta?
Il 25 giugno, dunque. È lì che conviene tornare.
LE MOSSE ABUSIVE DELLA POLIZIA
Quel giorno di giugno, la sezione del Tribunale del Riesame presieduta da Guglielmo Muntoni annulla i decreti con cui la Procura della Repubblica ha convalidato a posteriori, legittimandoli, i sequestri di materiale elettronico e contanti effettuati dalla Polizia nella villa di Casal Palocco durante il blitz della notte tra il 28 e il 29 maggio. Il collegio censura le iniziative della Questura a carico della Shalabayeva come frettolose e immotivate, confuta il presupposto formale della sua espulsione (la falsità del passaporto diplomatico centrafricano), ma, soprattutto, accerta che la Polizia ne conobbe immediatamente la vera identità, tanto da identificare la piccola Alua come sua figlia.
È una decisione cruciale. Non fosse altro per la ricostruzione dei fatti e la loro interpretazione. In un momento, per giunta, in cui l’affairenon è ancora nel cono di luce che conoscerà solo a partire dal 12 luglio.
IL PASSAPORTO
Scrive Muntoni: «Un’attestazione del ministro della Giustizia Centrafricana documenta l’autenticità del passaporto mostrato dalla donna a nome Alma Ayan, precisando che vi erano due piccoli errori nella trascrizione delle parole height (altezza) e address (indirizzo), riportate come eight e adress.
Pertanto, emerge che il passaporto dell’indagata non è falso, ma rilasciato dalle autorità centrafricane». Con una conseguenza. Il reato di falso che polizia e Procura contestano alla Shalabayeva e presupposto della sua espulsione sta in piedi come un castello di carte. «L’intestazione del passaporto ad Alma Ayan, anziché ad Alma Shalabayeva — si legge infatti nell’ordinanza — appare riferibile non a falsità, non risultando che l’indagata si sia presentata con falso nome alle autorità centroafricane, ma alla necessità dell’indagata di sottrarsi ai nemici politici del marito». Tanto che «lascia perplessi la velocità con cui si è proceduto al rimpatrio in Kazakhstan dell’indagata e della bambina, congiunti di un rifugiato politico, in presenza di atti dai quali emergevano quantomeno seri dubbi sulla falsità del documento».
L’IDENTITÀ DELLA PICCOLA ALUA
C’è di più. Sappiamo ormai che, al momento del blitz e certamente nelle ore immediatamente successive, la nostra Polizia, informata da due distinti cablo provenienti dall’Interpol di Astana è consapevole che all’interno della villa di Casal Palocco vive Alma Shalabayeva, di cui vengono forniti gli estremi dei due passaporti kazaki. Ebbene, quel 25 giugno, la circostanza (che emergerà solo a metà luglio con il deposito degli atti allegati alla relazione del Capo della Polizia) è ancora ignota a Muntoni che, tuttavia, arriva alla stessa conclusione con una constatazione fulminante. Scrive infatti il giudice del Riesame: «La Polizia ha manifestato dubbi sull’identità della donna e, tuttavia, la figlia che si trovava con la madre viene identificata in Ablyazova Alua, figlia di Shalabayeva Alma e del ricercato. Non come Ayan Alua». Insomma, la nostra polizia tanto era consapevole che quella bimba di sei anni e la donna che era con lei fossero la moglie e la figlia di Ablyazov che identifica la piccola per quello che è, mantenendo al contrario un artificioso dubbio sulla madre utile solo a creare il presupposto necessario all’espulsione. E a venire incontro — anche questo ormai sappiamo dai cablo — alle richieste delle autorità kazake di “deportare” la Shalabayeva se trovata in possesso di un “falso passaporto centrafricano”.
IL GIUDICE DI PACE
Ebbene, quel che vide Muntoni il 25 giugno poteva essere visto o quantomeno compreso dal giudice di pace Stefania Lavore la mattina del 31 maggio, quando decise di convalidare il trattenimento della Shalabayeva presso il Cie? Il Presidente del Tribunale di Roma Mario Bresciano, tre giorni fa, nella relazione a chiusura della sua indagine interna sulle decisioni prese dal giudice di pace ha evidenziato “gravi omissioni” da parte della Polizia. E, tra queste, aver taciuto la vera identità della donna kazaka. Un’accusa che la Polizia continua a respingere, sostenendo che durante l’udienza di convalida del fermo, l’identità kazaka della donna venne rivelata dai suoi avvocati e che nel fascicolo processuale erano comunque presenti i certificati consolari delle autorità centrafricane che attestavano l’autenticità del passaporto centroafricano. Insomma, a dire del Dipartimento, la Levore avrebbe avuto tutti gli elementi di accusa e difesa per valutare. Un fatto è certo, quel 31 maggio, la fretta indiavolata della Questura di mettere su un aereo per Astana la Shalabayeva certamente venne taciuta alla Lavore, per altro ignara che l’espulsione sarebbe arrivata addirittura ad horas.
E in qualche modo quella fretta mise sull’avviso anche la Procura che chiese, tra le 3 e le 5 del pomeriggio, un supplemento di istruttoria per concedere il nullaosta all’espulsione. Anche la Procura venne ingannata? «No», è la risposta che si raccoglie da fonti qualificate del Palazzo di giustizia. Paradossalmente, l’informazione con cui la Questura documentava la sua vera identità kazaka e la dichiarazione di falso del suo passaporto diplomatico (l’una e l’altra comunicate alle 3 del pomeriggio) convinsero il Procuratore Giuseppe Pignatone e il sostituto Eugenio Albamonte che non esistevano “ostacoli processuali” alla sua espulsione. È a ben vedere il nodo cui è impiccata la coda giudiziaria di questa faccenda che vede Procura e Questura legati indissolubilmente a una decisione che hanno condiviso ed che è diventata la trincea in cui la Polizia si difende dalle accuse del Tribunale e del giudice di pace.
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