Islam e Darwin, il sogno possibile

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A l-Ma’mun, il califfo di Bagdad, sogna. Gli compare un uomo dalla fronte spaziosa, le sopracciglia folte, gli occhi blu scuro, ormai calvo. L’apparizione declina le proprie generalità: «Sono Aristotele». Il califfo gli chiede cosa sia il bene. «Tutto ciò che giova al popolo», è la risposta. Al-Ma’mun torna a chiedere: «E poi?». Ribatte il filosofo: «Non c’è un poi». Forse è solo leggenda; comunque, l’ossessione del califfo per i libri, in qualunque lingua fossero scritti, avrebbe trasformato «la città della pace», costruita sulle rive del Tigri nel 726 d.C. come centro del nuovo e potente Impero abbaside, in una capitale della cultura paragonabile all’Atene di Pericle. Il nostro sognatore si era dimostrato un politico con i piedi saldamente piantati per terra nella lunga guerra civile che gli aveva permesso di liquidare il fratello, suo rivale. Fin da ragazzo aveva studiato la filosofia e si era rivelato assai competente anche nella grammatica dell’arabo, la lingua del Corano; ma non era digiuno di nozioni di aritmetica, che venivano applicate nella riscossione delle tasse. Gestiva il potere con mano salda, e intanto istituiva «la casa della saggezza», grande istituzione culturale in cui avrebbe chiamato le figure più prestigiose della ricerca religiosa e scientifica. La Casa doveva scomparire solo nel 1258 con l’invasione mongola.
Quest’epopea della «scienza araba» è oggi ricostruita in un bel libro di Jim Al-Khalili, docente di Fisica teorica all’Università del Surrey nonché divulgatore di alto livello per il «Guardian» e per la Bbc. Noto al pubblico italiano per aver discusso novità cosmologiche e paradossi della fisica dei quanti, in questo La casa della saggezza (Bollati Boringhieri), Al-Khalili ci offre il punto di vista di un ricercatore odierno, affascinato dalla nascita di una vera e propria Big Science (secoli prima che gli anglosassoni coniassero il termine), nella posizione di un osservatore dei due mondi: nato a Bagdad, è figlio di madre britannica e di padre sciita di origini persiane, nel cui albero genealogico compare persino un ayatollah. Ha conosciuto l’esperienza di «indesiderabile» al tempo di Saddam Hussein; ma ha trovato conforto nella tradizione di quei pensatori che in tempi lontani avevano fatto la grandezza della sua città natale. E se ha potuto apprezzare i vantaggi delle società aperte dell’Occidente senza trascurarne i difetti, è perché aveva alle sue spalle quella stessa tradizione di tolleranza e libera critica senza la quale la fioritura della «scienza araba» sarebbe impensabile.
«Non dovremmo vergognarci di riconoscere la verità anche se da generazioni precedenti e da nazioni straniere», scriveva al-Kindi (801-873), il primo «filosofo degli arabi». Gli faceva eco idealmente il medico e chimico al-Razi (854-925): troppo spesso la verità è «obbligata a nascondersi» per proteggersi dai fanatici religiosi che «proibiscono la riflessione razionale e si adoperano per uccidere i loro avversari». Più tardi il fisico Abu Ali al-Hasan ibn al-Haytham (noto in Occidente come Alhazen, 965-1039) per difendere le verità della scienza raccomandava di «trasformarsi in nemico di tutto ciò che si legge e applicare la propria mente a qualsiasi contenuto per attaccarlo da ogni lato». Dura autodisciplina, questa del «sospetto»: ma che è ricompensata dal conseguimento della conoscenza, una «delizia» insidiata da quelli che «etichettano le scienze come atee, sostenendo che esse conducano alla perdizione»; costoro lo fanno solo per «mascherare la loro ignoranza», denunciava il matematico, astronomo e geografo al-Biruni (973-1048).
Invece, dalla Bagdad di al-Ma’mun alla Cordoba andalusa, per le menti migliori era proprio l’ignoranza a essere detestata «peggio di un delitto»! Con la morte di al-Ma’mun era cominciata la decadenza di Bagdad; ma il desiderio di capire il mondo non si era spento. Alcuni dei «pionieri del dubbio», di cui sopra si è detto, dovevano prosperare al di fuori dell’esperimento politico degli abbasidi, e persino giovarsi della rivalità tra i diversi centri di potere in cui si era frammentato l’impero. Tutto ciò incrementava l’arte della traduzione in arabo dalle lingue più diverse — il greco come il cinese — e offrire vie di fuga per i «sapienti» ogni volta che si profilava un contrasto con le autorità. La tolleranza non è mai un atteggiamento di facile o sprezzante «benevolenza» nei confronti di chi la pensa diversamente, ma uno strumento concreto per costruire davvero una Big Science, il che vuol dire biblioteche, ospedali, laboratori e osservatori astronomici.
Le storie narrate da Al-Khalili riguardano anche noi. Fu il successo del grandissimo matematico al-Khwarizmi (il «filosofo Algo» degli europei, 780-850) a diffondere anche al di fuori della «comunità dei credenti», l’impiego delle cifre decimali (incluso lo zero), a dare nuovo impulso ad aritmetica e geometria, e a segnare una svolta nella disciplina che doveva diventare universalmente nota come algebra (e il termine algoritmo, oggi così familiare a economisti e informatici, non vi suggerisce niente?). Né andrebbe dimenticato il contributo alla riforma dell’astronomia di Tolomeo intrapreso dagli astronomi dell’osservatorio di Maragha, di cui venne a conoscenza in quel di Ferrara Niccolò Copernico! Come ha messo in luce uno dei maggiori storici della scienza araba, Ahmed Djebbar, in un volume di qualche anno fa dedicato al «patrimonio intellettuale dell’Islam», non bisogna cadere nella trappola dei precursori «arabi» (in senso lato) di Galileo o di Keplero; però, occorre rendersi conto che mai gli europei sono stati nani sulle spalle dei giganti come nel caso degli apporti da un mondo così vicino e allo stesso tempo così lontano come quello dell’Islam, anche se molti preferiscono dimenticare.
Libri come quello di Al-Khalili, invece, spingono noi e loro a ricordare; ogni volta che la libertà della ricerca viene minacciata — in Oriente come in Occidente — servono volontà politica di reagire e comprensione delle modalità dell’impresa scientifica. Vale anche per noi l’augurio finale di Al-Khalili: «Se il mondo islamico ce l’ha fatta una volta, potrà farcela di nuovo»… A sognare Aristotele, o magari Darwin ed Einstein.


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